Nella casella di posta elettronica del mio direttore c’è una e-mail che gli ho scritto ai primi di ottobre del 2012, quando stavo per partire per un reportage nella Nigeria settentrionale. Contiene una serie di istruzioni a cui attenersi nel caso si verificassero “eventi estremi”. C’è scritto che in caso di sequestro della mia persona da parte di gruppi terroristici non si deve pagare alcun riscatto. Quel testo è tuttora nelle mani del mio direttore e resta valido per ogni missione internazionale a rischio che mi capita di fare. E dopo di allora ne ho fatte una mezza dozzina.
Questo è quanto basta per sapere da che parte io mi collochi nel dibattito sul pagare o meno riscatti per italiani rapiti all’estero nel contesto di guerre civili e/o di azioni di terrorismo. Non posso sopportare l’idea che il prezzo di una mia sventatezza o della mia cattiva sorte lo debbano pagare altri esseri umani innocenti. Non voglio essere lo strumento grazie a cui Boko Haram o Jabhat al Nusra o l’Isis si procurano altre armi e altro esplosivo, grazie al denaro pagato dallo Stato italiano per la mia liberazione. Io ho incontrato i genitori e i parenti dei boy-scout che si sacrificarono nel 2012 davanti alla chiesa di St. Finbarr a Jos per impedire a un autoveicolo carico di esplosivo dei Boko Haram di entrare nel cortile della parrocchia e provocare una strage con centinaia di morti. Ricordo Monica, la madre di Viktor, il ragazzo 19enne che diede l’ordine di non aprire il cancello all’auto il cui conducente rifiutava la perquisizione. Mi disse: «Il dolore e l’odio sono due pesi troppo pesanti da portare insieme. Non potevo continuare a soffrire per aver perso Victor e a odiare chi aveva compiuto la strage, così ho lasciato andare il secondo peso: ho perdonato, e adesso la mia anima è leggera. Non l’ho fatto per il bene degli assassini, ma per il mio bene. Adesso sono serena per dire ai nostri giovani “non cercate la vendetta”».
Io ho visitato le vittime – musulmane e sunnite – delle autobombe di Jabhat al Nusra dentro a Damasco. Ricordo Rebab (foto sopra a destra), una donna di 30 anni madre di due figli, divorziata e senza casa dopo che la sua nel quartiere di Ain Tarma era stata distrutta dai combattimenti fra governativi e ribelli. Aveva il volto per metà sfigurato da un’esplosione, la mascella fratturata in più punti e un occhio forse perduto. Era stata un’autobomba di Jabhat al Nusra, esplosa in pieno centro della capitale, vicino alla moschea dove lei viveva insieme ai genitori e ai figli come sfollata. Davanti a una telecamera della tivù di Stato siriana il fratello aveva gridato dopo l’attentato: «È questa la libertà che ci vogliono portare?». Due giorni dopo gli erano arrivate minacce di morte sul suo numero di telefono cellulare.
Ricordo il monumento alle vittime delle autobomba di Jabhat al Nusra fatte esplodere nel quartiere cristiano di Jaramana, sulla strada per l’aeroporto internazionale di Damasco (foto sotto a sinistra). Un cuore gigante blu di plexiglas illuminato da neon interni, costellato delle foto dei volti delle vittime: uomini, donne e bambini; cristiani, musulmani, drusi e curdi.
Io non voglio essere il complice indiretto di queste atrocità e di questi lutti. Non potrei più dormire la notte se sapessi che altre Monica e altre Rebab piangono il loro amaro destino a causa delle conseguenze di un mio errore di valutazione. Non potrei più vivere: sprofonderei nella depressione. O forse scatterebbe in me qualche oscuro meccanismo di rimozione, e io mi sentirei normale e tranquillo mentre gli altri mi guardano come uno sciagurato. Vorrei evitare anche una situazione del genere.
Esigo il massimo rispetto per chiunque decida di rischiare del suo per motivi professionali o ideali in un teatro di guerra o di terrorismo. Trovo insopportabili le irrisioni, le villanìe, gli insulti all’indirizzo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli. Non certo per la scelta di campo che hanno fatto: il loro essersi schierate con i ribelli anti-Assad e avere scelto di assistere le vittime di quella parte come se fossero moralmente superiori a quelle dell’altro fronte merita una critica serrata e impietosa, che va estesa a tutti i simpatizzanti italiani della “primavera siriana” e alla politica stessa del governo italiano e dell’Unione Europea nell’attuale frangente. Ma bisognerebbe essere abbastanza sensibili ed equilibrati da saper distinguere fra il contenuto morale di un atto umano e quello politico. Il contenuto politico è, a mio parere, oggettivamente stupido. Ma quello morale merita riconoscimento e rispetto: gratuità, solidarietà, compassione, altruismo, coraggio sono virtù che meritano sempre riconoscimento, anche quando chi le incarna si è mostrato imprudente, perché non ne abbiamo mai abbastanza. Sono le virtù di cui più abbiamo bisogno in questa società mercificata, materialista, egoista e tutta centrata sui capricci dei singoli, nella quale ci troviamo a vivere. Quando incontro qualcuno che vive come se al centro dell’universo non ci fossero lui e il suo narcisismo, ma il bisogno degli altri, che considera gli altri più importanti di sé, io quel tale lo abbraccio sempre, a prescindere dalle sue convinzioni filosofiche, politiche, religiose, eccetera. Dopo, e solo dopo, critico, se ne ho motivo, i contenuti politici della sua azione solidale.
Nel caso di Greta e Vanessa la critica, come ho anticipato sopra, va estesa alla politica del governo italiano e a quella della Ue. Aiutare il Libero Esercito Siriano assistendo sia i “suoi” profughi che i suoi combattenti non è una stravaganza di due ragazze mal consigliate: è la politica ufficiale del governo italiano e dell’Unione Europea da poco meno di quattro anni a questa parte. Si può perdonare che quattro o tre anni fa, sull’onda dell’entusiasmo per le “primavere arabe”, i governi europei abbiano deciso di appoggiare i movimenti rivoluzionari contro i dittatori. Ma continuare a farlo oggi, come si sta continuando a fare, è imperdonabile. Se mai il Libero Esercito Siriano è stato una cosa seria, non lo è più da molto tempo. Questi signori, assistiti e finanziati dai governi europei Italia compresa, in questi anni hanno avuto un ruolo nei rapimenti dei giornalisti italiani Amedeo Ricucci, Andrea Vignali, Elio Colavolpe, Susan Dabbous e Domenico Quirico e delle due volontarie Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Non gli sono bastati gli aiuti governativi italiani: hanno venduto nostri connazionali ai gruppi jihadisti per fare altri quattrini.
La verità è che il Libero Esercito Siriano – fatta salva la buone fede di alcuni – è diventato un’accolita di elementi criminali, islamisti sotto traccia e cripto-jihadisti. L’Italia e l’Europa hanno sbagliato sin dall’inizio: dovunque nel mondo arabo bisognava lavorare per soluzioni di compromesso, negoziati, tregue, amnistie, governi di unità nazionale, eccetera. Invece abbiamo scelto di cavalcare l’onda rivoluzionaria e l’avvento della democrazia attraverso elezioni politiche. Senza renderci conto che in paesi complicati come l’Iraq, la Siria e la Libia la democrazia aritmeticamente intesa non è altro che la riproduzione dei rapporti di forza fra le diverse componenti etniche e religiose della società: non è un passo avanti verso la libertà e la giustizia.
Dunque chi irride e offende le due giovani donne merita biasimo, ma lo meritano anche tutti quelli che sproloquiano sul fatto che «la vita umana non può avere prezzo» e che «la vita delle persone viene prima di tutto». Questo è irrazionalismo sentimentalistico. Chi sostiene come me che i riscatti non vanno pagati propone una politica molto più efficace nel proteggere la vita umana che il cedimento ai ricatti. Negli anni Settanta e Ottanta l’Italia era afflitta dalla piaga dei rapimenti, soprattutto in due regioni: Sardegna e Calabria. La legislazione che ha reso impossibile il pagamento dei riscatti chiesti dai sequestratori attraverso il blocco dei beni delle famiglie ha portato all’estinzione del fenomeno. A dare un prezzo alla vita umana non è chi propone di non pagare riscatti: sono i rapitori. Sono loro che trattano la vita umana come una merce. Se azzeriamo il valore della merce (attraverso il divieto di riscatto), i rapitori smetteranno di rapire.
Ho visto che alcuni colleghi hanno scritto che il divieto di pagamento dei riscatti sarebbe un atto inutilmente crudele perché tanto i terroristi si finanziano in altri modi, soprattutto con la complicità degli stati. Ragionamento capzioso. In primo luogo, se continuano a rapire occidentali, evidentemente i jihadisti e i criminali mediorientali considerano tale attività necessaria e redditizia, e non certo un’appendice superflua del loro autofinanziamento. In secondo luogo, con questo ragionamento non si sarebbero dovute varare normative antisequestro nemmeno a livello italiano: anche la criminalità comune si arricchisce con attività diverse dal sequestro di persona. E allora lasciamoli sequestrare!
Naturalmente mi rendo conto che la mia lettera di istruzioni lasciata al direttore potrebbe non valere la carta su cui l’ha stampata: i sequestratori hanno a disposizione molti mezzi per far cambiare idea a un sequestrato e fargli dire davanti a una telecamera quello che loro vogliono sentir dire. Per questo penso che non basti lasciare liberatorie firmate come la mia, e sia necessario un provvedimento con base giuridica. Però mi sentirei confortato e incoraggiato se altri facessero come me.