

Per gentile concessione degli autori, pubblichiamo la premessa del volume “Otre nuovo per vino nuovo – Rinnovare le istituzioni del lavoro al tempo della AI” a cura di Emmanuele Massagli e Maurizio Sacconi (Marcianum Press).
La fotografia Istat del mercato del lavoro dopo la pandemia descrive il miglioramento della larga parte dei fondamentali indicatori come il tasso di occupazione generale, il tasso di disoccupazione, quello di inattività, l’incidenza dei contratti a termine su quelli permanenti. È legittimo, anzi doveroso, segnalare una tendenza positiva, ma è altrettanto necessario rilevare i persistenti ritardi per orientare in conseguenza le politiche pubbliche.
Rimaniamo lontani dalla media europea degli occupati, le donne che lavorano sono una percentuale inferiore di quasi venti punti rispetto al tasso medio in Europa, il tasso di disoccupazione giovanile è sceso, ma si conferma lontanissimo da quello dei principali concorrenti, con la conseguenza del progressivo invecchiamento degli occupati e dell’emigrazione di molti giovani per cercare non posti stabili, ma carriere dinamiche. Soprattutto, il numero degli inattivi che non lavorano e non chiedono di lavorare è corrispondente a quasi la metà della forza lavoro. Le statistiche evidenziano peraltro il limite delle medie nazionali a causa dell’ulteriore allargamento degli storici divari territoriali.
L’economia italiana è apparsa più resiliente rispetto a quella di altri Paesi dell’Unione e ciò spiega il lato positivo delle rilevazioni. Tuttavia, si è caratterizzata negli ultimi 25 anni per il peggiore andamento della produttività nell’area euro. Soprattutto la produttività del lavoro è rimasta ferma e conseguentemente la paga oraria è inferiore di un quarto rispetto a quella tedesca e francese.
A questi gravi ritardi si aggiunge la comparsa di fenomeni negativi nuovi come quello delle poche ore lavorate di molti, che determina il cosiddetto lavoro povero e la persistente, inedita, difficoltà di reclutamento del personale da parte delle imprese quale conseguenza del declino demografico, delle gravi insufficienze del sistema educativo e formativo, dell’affievolimento dello spirito di sacrificio e del senso del lavoro nella società.
Più in generale, l’incontro con l’Intelligenza Artificiale generativa (quella in grado di apprendere da sola e produrre contenuti anche di natura intellettuale) può determinare un pericoloso, ulteriore, rattrappimento perché, a differenza della grande democrazia americana, creativa e concorrente, in Italia si sono progressivamente limitati gli spazi discrezionali delle persone fisiche e giuridiche, come quelli nell’esercizio dei poteri pubblici, nel nome di una malintesa tutela del cittadino in quanto elettore, utente, consumatore, lavoratore. A ciò si è aggiunto il peso di una giurisprudenza spesso imponderabile, unico luogo della discrezionalità assoluta, che ha indotto comportamenti difensivi in danno delle capacità decisionali. Ora, di fronte ai pericoli impliciti nella AI (Artificial Intelligence), si manifesta la propensione a ulteriori regolazioni invasive nell’impiego delle macchine. La combinazione tra il pesante (e deresponsabilizzante) impianto normativo e le nuove regole limitative potrebbe ora produrre la definitiva fuga dalle responsabilità dell’uomo in favore del dominio dei software e degli algoritmi, tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata. Almeno in coloro che sono orientati dalla antropologia positiva, è doveroso l’interrogativo se sia più utile aggiungere limiti all’uso di tecnologie tutte da sperimentare nelle loro potenzialità positive o liberare l’uomo affinché le usi quale fonte incrementale e non sostitutiva della propria intelligenza. In questo cambio d’epoca il vecchio quadro giuridico non si adatta alle novità. Solo liberando la discrezionalità responsabile e investendo nella educazione morale e nel pensiero critico, avremo decisori istituzionali coraggiosi, giovani che intraprendono, lavoratori che crescono professionalmente, persone esperte che decidono con tempestività. Il confronto dell’uomo con le macchine impone più (non meno!) libertà per dominarle. Sarebbe inutile ogni retorica del tipo “l’ultima parola deve spettare all’uomo” se l’uomo stesso rimane schiacciato da sistemi fondati sulla antropologia negativa, sulla cultura del sospetto, sul giudizio sommario.
Questa agenda si pone nel solco delle intuizioni di Marco Biagi e vuole riproporre il suo orientamento alla maggiore flessibilità e il suo coraggio della discontinuità. Egli affermò per primo la obsolescenza di tutte le istituzioni del lavoro perché disegnate in funzione della seconda rivoluzione industriale, quando le produzioni erano seriali e i lavori ripetitivi. Il Libro Bianco del 2001 già indicava la necessità di radicali cambiamenti che negli anni successivi sono stati realizzati solo in minima parte e spesso contraddetti con significativi passi indietro. Lo stesso Jobs Act, per compensare la riforma dei licenziamenti, ha cercato di ricondurre tutte o quasi le prestazioni lavorative alla tradizionale subordinazione, sacrificando sull’altare dell’opportunismo politico il “lavoro a progetto”. Nel frattempo il contesto è straordinariamente mutato, ma, paradossalmente, le novità e le conseguenti insicurezze hanno indotto la tentazione di una sorta di “arrocco” sugli strumenti difensivi del passato. Con il risultato di rendere ancor più difficili i processi di inclusione e di giustizia distributiva. Sono proprio le vecchie gabbie a produrre demotivazione al lavoro, rattrappimento economico, deleghe improprie alle macchine intelligenti.
Le azioni qui descritte, al contrario, sollecitano la determinazione dei decisori istituzionali e sociali di sostituire l’impianto tradizionale che si configura come l’otre vecchio che la parabola evangelica descrive inadatto a contenere il vino nuovo perché la sua energia lo spaccherebbe facendolo disperdere. Solo in un contesto rinnovato saranno perseguibili obiettivi come il passaggio a tassi di occupazione europei anche per giovani, donne e cittadini del mezzogiorno, il recupero della produttività del lavoro, il dinamismo retributivo ovunque possibile, l’ascensore sociale accessibile a tutti, la qualità diffusa del lavoro. Il cambiamento può essere realizzato anche al prezzo di conflitti, considerato che nel tempo presente l’antagonismo politico è comunque immanente e spesso determinato da futili motivi.
Le azioni che proponiamo sono rivolte al miglioramento della qualità dei lavori, all’incremento dei tassi di occupazione e alla riduzione degli inattivi, dei disoccupati, degli inoccupati e del lavoro irregolare.
Le azioni sotto descritte sono dedicate a conferire valore al lavoro in termini di salute, formazione, orientamento ai risultati, dinamismo retributivo, sicurezza sociale, partecipazione, produttività.
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