Toronto. Il sindaco di Rio de Janeiro, Eduardo Paes, non ci ha pensato due volte. Con il consigliere comunale torontino, Michael Thompson, che gli proponeva un gemellaggio, ha messo subito le cose in chiaro: allacciare rapporti ora, «con quel sindaco che avete», non è proprio il caso. Più o meno le stesse parole scelte dal primo cittadino di Austin, Texas, evidentemente pentito di aver stretto un’alleanza con Toronto – appena un mese e mezzo fa – per fare delle due città le capitali della musica alternativa in Nordamerica.
Eppure i torontini, che “quel” sindaco hanno votato nel 2010, non sembrano affatto pentiti della loro scelta. L’ultimo sondaggio, commissionato dal quotidiano conservatore National Post, dice che il “job approval” di Rob Ford è al 42 per cento (quanto Obama tra gli statunitensi e più di David Cameron tra i britannici), e che un terzo esatto degli elettori – il 33 per cento – alle prossime elezioni tornerebbe a votarlo. Certo, la luna di miele dei primi mesi – quando il sindaco aveva un consenso intorno al 60 per cento – adesso è un po’ appannata, ma il messaggio che la stampa liberal americana ha trasmesso in queste settimane, e che giornali e tv europei hanno abbondantemente ripreso, non sembra poi così veritiero.
Rob Ford, il sindaco che fuma crack, che ammette di averlo fatto «durante una delle mie sbornie», che ha confessato di essersi anche messo più volte al volante sotto l’effetto di alcol e droga, che nonostante tutto dice «voglio fare il primo ministro del Canada», e che su questa sua candidatura trova oggi il sostegno del 19 per cento degli elettori, per i sacerdoti del politicamente corretto è l’Uomo Nero.
Erano tramortiti, perfino nell’ipercorretto Canada, i custodi del galateo pubblico globale. Da qualche anno, più o meno da quando al governo sono tornati i conservatori di Stephen Harper, sembravano battere continuamente in ritirata. Nel paese che per primo aveva aperto alle nozze gay e a tutti i neodiritti civili possibili e immaginabili, qualcosa – da quel 2006 – pareva cambiato. Il Canada profondo, quello dei petrolieri dell’Alberta e dei temerari dello Yukon, dei pescatori del Newfoundland e dei contadini del Saskatchewan, sembrava finalmente avere il sopravvento. Messi da parte i complessi d’inferiorità, quel paese reale che – come al di sotto del 49° parallelo, negli Stati Uniti – non si vede ma c’è, aveva conquistato le grandi città.
Soprattutto Toronto, il santuario del politicamente corretto in Nordamerica, la città dell’indie rock e dei grandi raduni omosessuali, la capitale mondiale del multiculturalismo. Archiviata la lunga stagione del sindaco progressista David Miller, uno che al Gay Parade di giugno ci andava vestito da biker, con pantaloni e berretto di pelle, in mezzo ai trans e agli epigoni di Freddie Mercury con baffoni e rayban specchiati, la metropoli canadese aveva scelto di voltare pagina. Rob Ford, uno che fino a poco tempo prima era semplicemente quel tizio che ogni tanto faceva casino in Consiglio comunale contro le spese pazze dell’amministrazione, all’improvviso era diventato l’uomo giusto al momento giusto.
Aboliti gli scioperi
Dicono sia l’incarnazione dei Tea Parties, dell’ultradestra scalmanata e antitasse. Un po’ è vero. È vero anche, però, che la base di consenso di questo sindaco sfrontato e nonostante tutto amato, nel tempo, si è modificata. Abbandonato rapidamente dalla buona borghesia, che sperava soltanto di aver trovato il paladino della sua insofferenza al fisco e all’intervento pubblico nella non trascurabile economia municipale, Ford ha scoperto di piacere a un “pubblico” nuovo: i diseredati delle periferie, la middle e lower class che guarda al sodo, ai servizi che funzionano, quelli che aspettano l’autobus la mattina a Scarborough per andare al lavoro, quelli che dal Comune si aspettano semmai una mano, i residenti del suo quartiere, Etobicoke. In questo, Ford non è secondo a nessuno. Porta sempre aperta, nonostante i modi spicci, e pugno di ferro con chi non lo segue: sua l’iniziativa che, appena un anno dopo il suo insediamento, ha portato il Parlamento dell’Ontario a varare una legge per impedire gli scioperi nel trasporto pubblico locale nella Greater Toronto Area, la grande area metropolitana che include molti municipi della cintura.
Dal 2011 la Ttc, la Toronto Transit Commission, ossia l’azienda del trasporto pubblico che gestisce bus, tram e metropolitana in un’area popolata da circa 5 milioni di persone, è per legge un “servizio pubblico essenziale”, e pertanto i suoi dipendenti non possono più interrompere questo servizio con i consueti scioperi a oltranza. Scioperi che in passato erano stati capaci di mettere in ginocchio il motore economico del paese: perché in Canada, quando si sciopera, non lo si fa per una giornata o due. Niente “pacchetti”, niente servizio a singhiozzo e fasce di protezione: quando i sindacati dicono sciopero, significa che si smette di lavorare finché la controparte non cede e in qualche modo la trattativa si chiude. Giorni, se necessario settimane. Da due anni, tutto questo a Toronto per i mezzi pubblici non succede più. Per questo, non c’è crack che tenga: i numeri del sondaggio hanno spiegazioni semplici come questa.
La battaglia fiscale
Certo, di Rob Ford si ride. Ride perfino George W. Bush, ospite di Jay Leno al Tonight Show. Ride il comico Jon Stewart, per il quale il sindaco di Toronto è «un episodio monografico della serie Cops». Scriveva pochi giorni fa il Toronto Star, il quotidiano più diffuso in città e in tutto il Canada, di chiara tendenza progressista: «È come se in questi giorni a Toronto stessimo ospitando le Olimpiadi, e a quei Giochi partecipasse un solo atleta, impegnato contro se stesso per aggiudicarsi una medaglia d’oro alla vergogna». Eppure qualcuno ama Rob Ford anche nel giro che conta. Per esempio un big della risata di Hollywood come Will Ferrell, uno che nel curriculum non avrà l’Oscar ma titoli campioni d’incassi e un personaggio, il mezzobusto Ron Burgundy, che qualche giorno fa a uno sbigottito Conan O’Brien, conduttore di un altro dei talk satirici della seconda serata americana, ha confidato di voler cantare la canzone per la prossima campagna elettorale di Rob Ford.
Spopola anche un pupazzetto, “Robbie Robbie”, prodotto in appena mille esemplari (venduti in beneficenza) e diventato presto oggetto del desiderio dei torontini, sostenitori e no del loro sindaco sopra le righe. Ford sa di averla fatta grossa. Si è scusato più volte, salvo poi veder peggiorare la situazione con nuovi video e nuove parole fuori luogo. Prima il video del crack, con il sindaco che fuma in compagnia dei pusher, poi un altro filmato in cui si vede Ford minacciare di morte un rivale di cui non è chiara l’identità: «Gli strappo la gola, gli caverò gli occhi», e via dicendo. E poi: i dipendenti del suo staff che ora lo accusano di ubriacarsi e drogarsi, di usare un linguaggio inappropriato con i collaboratori (e soprattutto le collaboratrici) e di aver ricevuto perfino prostitute nel suo studio a City Hall.
Ora che dal suo ufficio non può dire la sua sul destino della città di cui nonostante tutto rimane sindaco (lui non vuole dimettersi, e la legge non glielo impone), Rob Ford vede però cosa rischia di succedere a Toronto senza di lui. I suoi poteri, fino al limite consentito dalla legge, gli sono stati ridotti dal Consiglio comunale, dove in suo favore hanno votato pochi fedelissimi, come l’italocanadese Frank Di Giorgio. Ford non può più muovere le fila del bilancio municipale, e questo ha ridato fiato al partito delle tasse: si comincia a parlare di un aumento dell’imposta sulla proprietà immobiliare, una sorta di Imu, che senza il veto del sindaco potrebbe quasi raddoppiare. «Il treno delle tasse si è rimesso in moto», ha commentato lui, senza nascondere la delusione. Perché, al netto di un circo mediatico senza precedenti per il compassato Canada, è la battaglia fiscale il vero nodo del caso Rob Ford. Si potrebbe dire: calunniate, calunniate, un balzello resterà.