Riforma del lavoro. Superare il “culto” dell’articolo 18 è la sfida per la sinistra italiana

Di Redazione
23 Settembre 2014
Arriva il Jobs Act al Senato. Renzi vuole riformare lo Statuto dei lavoratori. La «vecchia guardia del Pd» si oppone. Vendola: toccarlo «è la peggiore delle porcherie». La Cgil minaccia lo sciopero

Mercoledì approderà in Senato il Jobs Act, il disegno di legge presentato la scorsa primavera dal premier Matteo Renzi e dal ministro Giuliano Poletti. Non è la riforma del lavoro vera e propria, ma una legge con cui il Parlamento delega al Governo la stesura e l’approvazione delle nuove norme sul lavoro, seguendo i principi e le linee guida approvati da Camera e Senato.
Una volta entrata in vigore la legge-delega, il Consiglio dei ministri avrà sei mesi di tempo per approvare la riforma del lavoro, che diverrà definitiva senza alcun passaggio alle camere. Se non dovesse incorrere in qualche ostacolo, la riforma arriverà entro l’estate.

SUPERAMENTO ARTICOLO 18. Semplificazione dei contratti (a tempo determinato o indeterminato), sussidio di disoccupazione universale per tutti i dipendenti, e riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sono i punti centrali della riforma. Su quest’ultimo, si concentra il dibattito politico. Nella riforma immaginata da Renzi e Poletti, l’articolo 18 potrebbe essere “superato” abolendo l’obbligo di reintegro del lavoratore licenziato (eccetto in caso di discriminazione), sostituendolo con un indennizzo. L’obiettivo, ha detto Renzi, «è rendere più semplice il lavoro: nessuno vuole togliere diritti ma darli a chi non li ha avuti». Per Ncd, l’articolo 18 va semplicemente abolito. Per la sinistra del Pd, Sel e per la Cgil, pur con qualche distinguo, l’obbligo di reintegro deve rimanere.

LE MINACCE DELLA SINISTRA. Se per Nichi Vendola, leader di Sel, la riforma dell’articolo 18 «è la peggiore delle porcherie», per la “vecchia guardia” del Pd e l’ex segretario Pier Luigi Bersani si può «semplificare» ma l’opzione di reintegro del lavoratore deve restare. All’attacco diretto di Renzi è invece il segretario della Cgil, Susanna Camusso. L’articolo 18 non si tocca. «In assenza di un confronto», ha minacciato la leader del sindacato rosso, «non potremo che mettere in campo una grande mobilitazione, che mi auguro unitaria con Cisl e Uil». Tuttavia, proprio dalla Uil, il premier ha incassato un sostegno. Il segretario Luigi Angeletti ha spiegato la Uil sarà disposta a discutere con il Governo dell’articolo 18, se la riforma del lavoro intendesse «dare un diverso sistema dai licenziamenti illegittimi a coloro che, o sono disoccupati, o hanno dei contratti per i quali non sono previste tutele, cioè di dare qualcosa di più a chi non ha nulla».

LO SCONTRO SULLO STATUTO. Già nel 2001, il Governo Berlusconi presentò un’ipotesi di modifica dello Statuto dei lavoratori. La riforma promossa dal centrodestra prevedeva la sospensione dell’articolo 18 per quattro anni in caso di contratti a tempo determinato trasformati in tempo indeterminato, per i lavoratori emersi dal sommerso e per le imprese che volevano superare la soglia dei 15 dipendenti. La legge fu abbandonata nella primavera del 2002, dopo uno scontro durato mesi con i sindacati, guidati dalla Cgil di Sergio Cofferati. Soltanto dieci anni dopo, nel 2012, il governo Monti riuscirà, con la riforma Fornero, ad apportare alcune modifiche allo statuto concepito nel 1970, abolendo il reintegro automatico del lavoratore licenziato e inserendo la possibilità di indennizzare il dipendente.

SIMBOLO DEL SINDACALISMO. In un editoriale l’Istituto Bruno Leoni osserva che l’articolo 18 «è il simbolo di tutto quello che in Italia non si può toccare». «La sua apparente sacralità – prosegue il think tank liberale – è la testimonianza palmare del potere di veto dei sindacati, organizzazioni che hanno perso rappresentatività e presa nella società italiana, ma restano ospiti riveriti alla mensa della politica. Il culto dell’articolo 18 incarna quella convinzione diffusa per cui lo Stato deve dispensare “diritti”, ai quali non deve corrispondere alcuna responsabilità individuale». Per quanto riguarda il mondo del lavoro contemporaneo, l’articolo 18 è anacronistico, «una reliquia di una stagione nella quale si è contrabbandata l’idea che lavoratori e datori di lavoro fossero permanentemente e necessariamente in conflitto, e non indispensabili alleati gli uni degli altri».

LE DUE SINISTRE. Il Corriere della Sera sembra aver sposato la battaglia sul lavoro del premier Renzi, avendo fatto intervenire ieri in prima pagina Pierluigi Battista. Secondo l’editorialista del quotidiano di via Solferino, l’esito del dibattito interno alla sinistra sullo Statuto dei lavoratori è centrale per il suo futuro. L’articolo 18, osserva Battista, è «una clausola sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati». Eppure una parte della sinistra lo considera ancora un «dogma» intoccabile. Il Pd avrebbe dunque solo due alternative davanti a sé: «Mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare l'”anima” della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi». In Inghilterra fu Tony Blair a sconfiggere la vecchia guardia dei Labour, in Germania fu Gerhard Shroder a modernizzare i socialisti, ricorda Battista. Ora anche la sinistra italiana, guidata da Renzi, secondo la penna del Corriere, deve vincere «le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri principi violati dall'”usurpatore” di turno».

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8 commenti

  1. Cisco

    L’art. 18 è un totem, non serve quasi a nulla, quindi non serve quasi a nulla toglierlo.
    In Italia è inapplicabile al 90% delle aziende, cioè a quelle con meno di 16 dipendenti.
    Nelle altre di fatto si arriva ad un accordo sulla buonuscita.
    Le priorità divrebbero essere tasse, burocrazia, costo dell’energia e lotta al precariato.
    E soprattutto riorganizzazione delle aziend epr renderle più competitive, dato che abbiamo una classe imprenditoriale spesso incapace di affrontare la globalizzazione.

    1. lucillo

      Si, ma normalmente si va a buonuscita esattamente perché c’è l’art 18.

  2. mau

    Trovo abominevole che un governo di simil sinistra voglia togliere l’articolo 18. Ricordo che tante giovani donne vengono assunte con la lettera di licenziamento in bianco, da usare in caso di gravidanza o matrimonio. Tanti ragazzi senza un lavoro fisso. Vuol dire meno possibilita’ di formare una famiglia, comperare una casa, accedere a servizi, ritengo pericoloso. Noi cristiani dobbiamo salvaguardare

  3. lucillo

    L’art 18 funziona bene esattamente perché non si usa. Con il reintegro ordinato dal giudice costituisce una tutela reale e “forte”, così che le aziende evitano di fare stronzate ed operano licenziamenti individuali solo se sono davvero per giusta causa, ed in questi casi normalmente è lo stesso sindacato a sconsigliare al lavoratore la battaglia legale.
    L’art 18 ha salvato da moltissimi licenziamenti senza le giuste cause previste da leggi e contratti, innanzitutto evitando che fossero fatti, e poi in una minoranza di casi con il reintegro.

    Sebbene l’art 18 riguardi il licenziamento individuale, esso in realtà opera un’altra ulteriore tutela di tipo collettivo, che è ciò che secondo me è veramente in ballo (sottotraccia, perché non lo si può dire almeno a “sinistra”). Con il reintegro il lavoratore è libero di pretendere i propri diritti senza temere ritorsioni, o la più grave fra queste e cioè il licenziamento: può rifiutare lo straordinario, può esigere il rispetto delle norme di sicurezza, può pretendere il livello e la retribuzione adeguati al lavoro che svolge, può scioperare, può controllare che i contratti dei lavoratori precari siano rispettati, può pretendere che i bagni vengano puliti, può respingere pressioni indebite quando non insulti e minacce del capo diretto, ecc ecc.
    E nella fabbrica può esserci un sindacato che tutela su queste cose tutti ed ognuno dei lavoratori. Il vero problema è che togliendo il reintegro le aziende saranno ben contente di far fuori i tre o quattro “rompicoglioni”, spendere per ognuno 25/30 mila euro, spaventare tutti ed avere “risparmi” ed “efficienze” di valore ben superiore!
    Il vero tema è il controllo sul lavoro, e non per niente si vogliono toccare anche demansionamento e controllo a distanza. Alcuni, pochi, lo dicono chiaro, per esempio Sacconi e Marchionne. Qualcuno fa finta di non saperlo e dice che il problema è un altro, per esempio Ichino e Poletti. Qualcuno non gliene frega niente perché ha altro a cui pensare, per esempio Renzi e Bonanni.

    1. Sebastiano

      Per una volta mi trovo d’accordo con Lucillo. E aggiungo che non credo proprio che gli imprenditori non assumano per paura dell’art.18. Questa è la vera bufala della querelle.

  4. picchus

    E’ triste che Tempi si schieri con la porcata del governo sull’articolo 18, che è una tutela di civiltà che andrebbe estesa a tutti, non eliminata.

  5. francesco taddei

    i ministri del lavoro e dell’industria dovrebbero essere a fianco dei lavoratori, per esempio nella vertenza ast-tk, invece di mantenere un borghese distacco. per dante gli ignavi non erano degni neanche dell’inferno.

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