Letta la circolare dell’Agenzia delle entrate che spiega le norme del nuovo redditometro, il vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni Serena Sileoni è rimasta preoccupata, visti i problemi che lo strumento del fisco potrebbe causare ai contribuenti. Serena Sileoni è avvocato e dottore di ricerca in diritto pubblico comparato, è attualmente assegnista in Diritto costituzionale alla Scuola superiore sant’Anna di Pisa. È stata consulente di istituzioni nazionali ed europee su vari temi di ambito pubblicistico ed è membro di diversi istituti e associazioni di ricerca del settore. Ha svolto periodi di studio all’estero, ad Alicante, Dublino e Parigi.
Dottoressa Sileoni, cosa la preoccupa di più dopo aver letto la circolare sul nuovo redditometro?
Il punto più scomodo è la totale cancellazione dell’idea che possa esistere un comportamento che ha salvato l’Italia: la propensione al risparmio. Il redditometro funziona come uno spesometro e presume che i soldi spesi durante l’anno corrispondano a quelli guadagnati nello stesso periodo, senza considerare il fatto che le spese importanti si fanno con i risparmi.
Ma non è difficile dimostrare che un’acquisto è stato fatto con i risparmi.
Il fatto che il cittadino debba essere scomodato dall’Agenzia delle entrate per giustificare un comportamento che è encomiabile e protetto dall’articolo 47 della Costituzione è una cosa da ancien régime. Si dice che si vuol dar tempo al nuovo redditometro per vedere come sarà utilizzato. Ma la realtà è un’altra e credo che ormai sia entrato nella testa delle persone che i metodi dell’amministrazione fiscale non siano propriamente associabili a quelli di uno Stato di diritto. Stiamo parlando di un sistema fiscale che è palesemente mal distribuito in termini di equità tra i due soggetti, Agenzia delle entrate e contribuenti.
E non è l’unico motivo di preoccupazione, a giudicare dall’editoriale pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni.
L’idea di spendere solo ciò che si guadagna durante l’anno e l’utilizzo a integrazione delle medie Istat è la summa della presunzione. Si pretende che il contribuente abbia speso quello che dice l’Istat rispetto a vari parametri: geografici, familiari, eccetera. E oltretutto si presumono i gusti e le preferenze di spesa individuali dei cittadini. Mi spiego con un esempio: se a me piacessero le auto a grossa cilindrata, non potrei in nessun modo comprarne una, anche se facessi sacrifici enormi e mangiassi pane e cipolla per anni. Per l’Agenzia delle entrate non rientra nel mio target di acquisti, ergo se ne compro una sono un evasore. Viene in questo modo fatto fuori il concetto di preferenza. Poi, a nostra difesa, si potranno dimostrare tutte le pene patite per l’agognato acquisto, ma dovrò sempre muovermi per giustificarmi e la buona fede non è mai considerata.