
Quando ci sveglieremo dalla grande ipnosi. Il lockdown e la sua narrazione anestetica

L’epidemia detta di Covid-19, e soprattutto il suo trattamento da parte delle autorità politiche, hanno condizionato fortemente da molti mesi a questa parte la vita di tutti e di ciascuno. Il racconto dell’epidemia continuamente proposto dalle autorità, e le restrizioni conseguenti, hanno avuto l’effetto di modificare il campo della realtà socialmente condivisa nel quale si svolgono tutte le attività vitali delle persone. L’epidemia è stata raccontata come l’irruzione nel quadro della realtà condivisa di un fatto totalmente nuovo, più reale della realtà perché si aggiungeva ad essa senza avere con essa una comune misura, senza trovare in essa un posto che permettesse di situarlo e di viverlo senza scardinarla: qualcosa di simile, su scala sociale, all’esperienza dell’allucinazione, nella quale appunto il soggetto si trova a fare i conti con un evento psichico che si impone nella sua realtà, restando però del tutto estraneo ad essa. L’effetto fondamentale è stato quello di sospendere per tutti e per ciascuno la “validità” del quadro di realtà nel quale si viveva; sospenderla a tempo indeterminato fino all’avvento della “soluzione”: il dissolvimento dell’evento epidemico.
Quelle che seguono sono una serie di considerazioni partite dall’esperienza personale di chi scrive: esperienza di malattia all’inizio, avendo contratto il Covid, poi esperienza di cittadino italiano imprigionato e impedito di continuare le attività e i rapporti sociali, sulla base di una logica alla quale, pur con tutta la buona volontà, non poteva non opporre un’obiezione di coscienza. Un’obiezione fondata sia sull’uso della ragione, sia sulla propria esperienza della psicoanalisi. Chi scrive infatti è uno psicoanalista: che sa però di essere psicoanalista solo quando opera come tale nel rapporto con un singolo soggetto. Perciò chiarisco subito che, con le considerazioni che seguono, chi scrive non intende in nessun modo porsi come analista (del) collettivo, cosa che sarebbe insensata perché impossibile, anche se qualche analista ogni tanto sembra credere di poterlo fare. Chi scrive è semplicemente qualcuno che ha esperienza dell’analisi, e che non può ignorare tutto ciò che questo campo di esperienza gli ha mostrato a riguardo delle strutture della soggettività umana e dei legami che stringono il soggetto agli altri, alla realtà e a se stesso – e dei relativi problemi.
Attenti al babau
L’esperienza delle cure parlate del soggetto, specialmente quelle psicoanalitiche, porta ad interrogarsi sul modo e sulla logica secondo i quali i soggetti affrontano le congiunture della loro vita, anche quelle traumatiche. È così che ci si accorge della radicale differenza che c’è tra il modo in cui un evento come l’epidemia è un problema per il governo, e il modo in cui è un problema per ciascun soggetto: una radicale differenza di punti di vista, il secondo dei quali è stato attivamente ignorato dalle autorità che hanno cercato sempre di fare in modo che i cittadini guardassero le cose dal punto di vista del governo, distogliendoli dalla responsabilità dei propri compiti vitali. Un gigantesco “qui pro quo” scientemente intrattenuto da coloro che esercitano il potere o che parlano in suo nome, che non hanno cessato di parlare alla gente come se non avessero altra sollecitudine che di fugare le sue paure: le stesse paure che proprio i loro discorsi producevano. Non hanno cessato di parlare come a bambini ai quali si dice di stare buoni e fermi nei loro lettini perché solo così il papà e la mamma terranno lontano il babau.
Da molte parti si parla dell’esperienza che la gente ha fatto in questa epidemia, e dei possibili cambiamenti in meglio che ne possono derivare. A mio sommesso avviso queste voci danno troppo facilmente per scontata la cosa. Che gli italiani abbiano propriamente fatto esperienza dell’epidemia – e, nel caso, di quale esperienza si tratti – non è affatto certo, anche per il modo in cui le autorità gliela hanno fatta vivere. Voglio che sia chiaro che l’obiezione alle autorità che percorre queste righe non ha nulla a che vedere con una posizione di tipo anarchico: anzi, la critica alle autorità che qui viene fatta implica la certezza della funzione fondamentale dell’autorità nei legami sociali e proprio per questo la critica mossa alle autorità è quella di essere venute meno alla loro essenziale funzione.
Chi scrive si è posto domande sull’inaudita facilità con la quale si è verificato ciò che non si era mai visto né pensato prima, nemmeno in tempo di guerra: che un’intera nazione si chiudesse in casa al comando del governo, sospendendo ogni altra attività o interesse vitale. Sorgeva la domanda su come era stato possibile questo, e insieme l’interrogarsi sulla logica che presiedeva vuoi alla imposizione del governo, vuoi all’accettazione di essa da parte dei cittadini.
L’esame sospeso
A chi scrive capitò in gioventù di praticare l’ipnosi, non professionalmente ma sperimentalmente, perché interessato a ripercorrere il percorso di Sigmund Freud dall’ipnosi all’invenzione della psicoanalisi, per verificarne le ragioni; questo avvenne in un contesto molto particolare che non è il caso di dettagliare in questa sede. Il tratto che più colpiva nelle esperienze ipnotiche era che per il soggetto ipnotizzato il rapporto con la realtà era quasi totalmente determinato dalla parola dell’ipnotizzatore: la voce dell’ipnotizzatore, prima ancora che comandare un’azione, comanda di credere a un certo quadro della realtà, dice come è la realtà in cui si agisce. Nell’ipnosi l’esame di realtà è sospeso, nota Freud, proprio come nella folla. Chi scrive non ci ha messo molto a ritrovare nel discorso delle autorità sull’epidemia, nel conseguente comando di chiudersi in casa e nella totale obbedienza ottenuta le stesse caratteristiche di quelle esperienze di ipnosi: definizione dello stato della realtà da parte di un’autorità, comando di comportamenti congruenti con quel racconto, arrendevolezza del destinatario del comando che rinunciava alla critica, al pensiero, al voler sapere, per non contraddire l’autorità. Quello che era accaduto e che continuava ad accadere aveva dunque tutte le caratteristiche di un caso di ipnosi di massa.
Uno dei segni di questa difficoltà di consapevolezza mi pare sia stata la scarsa percezione generale della novità e dell’enormità delle conseguenze del comando impartito, dei suoi effetti inauditi, mai visti prima per estensione e per radicalità. Le persone hanno vissuto questa situazione eccezionale come se fosse poco o tanto normale, cioè inserita nel sistema della vita ordinaria; tutt’al più come una sua variante magari fastidiosa, ma altrettanto legittima. Eccezionale, dunque, è stato l’oggetto del comando, non il metodo, la via, la condizione che ha permesso la sua efficacia. Ciò vuol dire che il rapporto ipnotico con l’autorità, e lo stato di ipnosi dentro il quale un comando d’eccezione è stato impartito, in realtà era già in atto da molto tempo, anzi era ed era percepito come la condizione non eccezionale, ma normale dei rapporti sociali e politici, almeno di quelli intrattenuti con le funzioni più sintetiche della collettività: le autorità e i mezzi di comunicazione.
Un racconto non negoziabile
L’autorità ha imposto come verità necessaria sia il proprio racconto della realtà epidemica, sia le conseguenze operative da tirare, poste come indiscutibili, non negoziabili, senza mai chiedere al cittadino di condividere il racconto e scegliere le conseguenze, senza fare appello alla valutazione, alla verifica, alla responsabilità delle persone: in una parola, senza chiedere di pensare, anzi chiedendo di non pensare, e cioè di non fare esperienza.
Negli ultimi decenni, ben prima dell’epidemia, che cosa ha permesso alle persone di fare propriamente esperienza, se non luoghi – famiglie, comunità di vita, di cultura, di azione sociale, luoghi di cura – che custodivano tradizioni di legame umano come metodo proposto al soggetto per affrontare la realtà? Cioè luoghi nei quali il soggetto era coltivato e curato, e non ancora eliminato come fattore reale dall’imperialismo della tecnoscienza applicata alla società e alla vita dell’uomo. Senza soggetto non c’è esperienza, perché fare esperienza implica da una parte un riferimento serio alla verità; e dall’altra parte implica incontrare la realtà attraverso atti del soggetto che mettono in gioco la sua responsabilità – oltre che libertà –, atti che permettano al soggetto di sapere che è davvero lui che ha fatto quell’esperienza, e di capire poi quale esperienza avrà fatto. Senza responsabilità e verità non possono esserci atti, ma in fondo nemmeno eventi, perché gli eventi presuppongono storie dentro le quali essi accadono ed alle quali essi danno una struttura. Ora, “atti”, “eventi”, “responsabilità”, “libertà”: nulla di tutto ciò viene messo in gioco nell’obbedienza automatica, non scelta, dell’ipnosi che evidentemente non si rivolge ai soggetti in quanto persone libere e responsabili.
La logica del tutto o nulla
A un certo punto, quando in alcune zone del Nord Italia l’organizzazione medica non ha retto all’ondata di richieste di ricovero, l’autorità ha deciso di tramutare la “gestione pubblica” dell’epidemia, cioè un proprio compito amministrativo, in una specie di guerra che la collettività dichiarava al virus: e che come tutte le dichiarazioni di guerra ad un nemico supposto mortale imponeva al cittadino la sospensione e la rinuncia al suo pensiero e alla sua scelta. Rivelare al cittadino che si era in guerra contro un nemico mortale voleva dire spingere il cittadino nel tunnel della logica del “tutto o nulla”. Proporre al cittadino di scegliere avrebbe implicato una logica diversa: le persone avrebbero potuto decidere che cosa erano disposte a rischiare per evitare sì la morte, ma senza rinunciare al loro desiderio di vivere.
Ora, come giustamente fa notare Jacques Lacan, «non c’è fatto se non detto». Quindi è ovvio che anche un fatto come un’epidemia esista, come fatto, solo in quanto detto e nel modo in cui viene detto: specialmente perché come fatto sociale eccede ampiamente il raggio di percezione del singolo. Ma proprio per questo non è scontato che qualcuno si arroghi il monopolio del “dire” questo fatto, il monopolio del farlo esistere per la collettività, il che implica il fare tacere ogni altra voce che potrebbe raccontare l’epidemia in altri modi.
La minaccia dell’esclusione
Il fatto epidemia è stato fatto esistere dalla voce dell’autorità per persone che non ne avevano alcuna esperienza diretta, martellando una serie di dati, specie quello dei decessi, fondamentalmente falsificanti, privi di significato in quanto assoluti, cioè privi di termini di comparazione. Come fossero delle rumorose esclamazioni, che di per sé non hanno un significato reale, ma in compenso hanno molto senso: il senso, che trasmettono, della incombenza di un pericolo assoluto.
Ovviamente, cercare di evitare la morte è alquanto sensato, nella vita di ciascuno. Ma la morte che ciascun individuo cerca di evitare non è la stessa morte che l’autorità gli ha suggerito di evitare ad ogni costo: la prima sarebbe la propria morte, al cui rischio si può anche scegliere di andare incontro a ragion veduta e se c’è una causa adeguata (come hanno testimoniato medici e infermieri col loro impegno); la seconda è invece la morte (l’annullamento) dell’Altro collettivo a cui si appartiene, morte che non può essere tollerata o rischiata.
Ho detto che l’autorità ha comandato di evitare la morte ad ogni costo: senza dire però con onestà democratica al cittadino che ci sono inevitabili costi soggettivi da affrontare, senza permettergli di capire quali lui preferisse pagare né porgli la questione di come calcolarli. Tutto ciò non è né educazione né consenso né persuasione, questo è un esproprio della competenza etica e politica delle persone. Quando si racconta una realtà e si suggeriscono alcune conseguenze come semplicemente necessarie, senza passare dalla libertà di valutazione dell’altro, quando si forza perciò il suo consenso ponendolo non come possibile, ma come necessario, come già inscritto nell’ordine delle cose (raccontate), siamo nel campo della suggestione ipnotica. Con essa l’autorità sollecita il soggetto scuotendo il ramo su cui esso sta seduto, cioè sollecitando il livello più fondamentale dell’appartenenza al gruppo umano tramite l’implicita minaccia di escluderne il soggetto, facendolo scendere o cadere dal ramo.
Come si fa in guerra
In effetti, se l’unico significato dei discorsi ipnotici del governo è: «C’è l’epidemia come te la dico io, quindi devi fare così, altrimenti sei dannoso per la collettività», anche il semplice voler sapere i fatti reali che autorizzano l’autorità a dirtelo suona già come negazione dell’autorità. Non è considerato come la negazione di fatti (che peraltro non vengono proposti come tali alla tua verifica e discussione), ma è sentito come un attacco all’autorità che comunque resta l’ultima base a cui il cittadino può intimamente trovare appoggio per non sentirsi disorientato e slegato anche da se stesso.
In realtà l’autorità ha mostrato lei stessa di non credere a ciò che voleva far credere dell’epidemia: se l’avesse presa veramente sul serio come guerra contro un pericolo mortale che minacciava tutti, avrebbe fatto come Churchill, o come quei comandanti che decidono di soffrire assieme alle loro truppe, avrebbe fatto in qualche modo fronte comune con le opposizioni politiche, senza tante “distinzioni di ruolo”, perché nelle situazioni di vera emergenza mortale, di guerra, si fa così, se ci si crede.
Il guaio è che il reale, messo ai margini del campo di gioco, ad un certo punto ritorna in campo, fa irruzione e manda a monte le partite che non hanno fatto i conti con lui. Non sappiamo in quale modo tornerà, sappiamo solo che il reale non chiede mai a nessuno il permesso di tornare. E il reale in questione oggi, ahimè, non è il reale del Covid, che si è riusciti benissimo a de-realizzare, a virtualizzare. Chiediamoci: in che modo l’enumerazione e la rappresentazione dei morti ci può dire che cosa fare per vivere? Ecco: il reale sul quale qualcuno prima o poi aprirà gli occhi svegliandosi dall’ipnosi, sarà il conto che ci presenteranno tutte le esigenze, i desideri e gli interessi realmente vitali sui quali abbiamo ceduto, che non abbiamo potuto/voluto far entrare in gioco, che abbiamo sacrificato all’imperativo dell’Unica Grande esigenza – ahimè solo negativa – quella di evitare a tutti i costi il contagio. Sono proprio tutti questi costi che, direbbe Lacan, «rigettati dal simbolico», cioè non presi in conto, «ritorneranno nel reale». Difficile dire come, dal punto di vista dei processi e dinamismi economici e sociali.
In cerca di certezze
Possibile che non ci siano effetti del senso di colpa che sempre accompagna la rinuncia al desiderio? E che oltre agli effetti inconsci depressivi o melanconici, non vi siano reazioni rabbiose al senso di colpa consapevole per aver accettato di fare questa rinuncia? Infatti, per quanto le persone possano pensare, anche giustamente, di essere state costrette da altri a questa rinuncia, il soggetto “sa” sempre di avere quanto meno collaborato all’imposizione, di “esserci stato” ad essa proprio per devozione all’autorità. Resta però sempre aperta la possibilità che l’autorità, che teme di essere attaccata dalla massa delusa, per stornare da sé questo attacco indichi ad essa qualche altra figura di colpevole con cui prendersela: si è già visto, nella storia, ed è mediaticamente forse più facile oggi.
Torniamo alla questione della morte. Il fatto che l’esito mortale della malattia sia poco probabile se calcolato sull’insieme di tutta la popolazione, lascia intatta la sua possibilità per ciascun individuo, che deve perciò soggettivamente fare i conti con questa possibilità. Ma questa possibilità è impossibile da eliminare, come quella di ogni pericolo connesso con la vita, specialmente quella sociale. La “sicurezza”, perciò, è impossibile se la si cerca o la si aspetta dal lato della realtà, perché nella realtà non cessa di esserci pericolo. E se qualcuno volesse questa “sicurezza” come condizione per poter poi agire e vivere, non agirebbe né vivrebbe mai: “farebbe il morto” per evitare di andare incontro al pericolo di morte. Questa è la stessa posizione soggettiva di chi ha sintomi e comportamenti che chiamiamo ossessivi ed evitanti: solo che di solito chi soffre di questi sintomi li sente come un disturbo della propria vita e può chiedere a uno psicoanalista o altro terapeuta di aiutarlo a uscire da questo tipo di paralisi o di vicoli ciechi. Da cui nessuno esce se non trova, non la “sicurezza” – che è impossibile nel reale –, ma piuttosto la “certezza” di qualcosa che vale la pena desiderare e vivere affrontando i rischi possibili: non perché li nega – la negazione maniacale del rischio è anch’essa una patologia, opposta – ma perché trae “certezza” dal seguire la via del desiderio. Non è l’ultima delle colpe dei governanti l’aver proposto al cittadino la demoralizzazione fobica, ossessiva o evitante come fosse un bene comune e un merito sociale: l’aver scelto di essere solidali non con la vita del cittadino, le sue ragioni e le sue risorse, ma solo con gli algoritmi e i modelli teorici di gestione sociale della morte. Anche questo però si inscrive in un processo che dura ormai da vari decenni: la progressiva divaricazione, nel campo della medicina, tra la logica di cura della vita e la logica di amministrazione della morte.
Il comando dell’autorità nel nostro mondo è sempre diretto a ciascuno come individuo, senza prendere in conto il suo legame con altri, e ogni individuo vi risponde come tale. Nella situazione presente si è vista la difficoltà con la quale persone che pure avevano una consuetudine di gruppo, di comunità, di legame culturale o di vita, riuscivano a parlarsi formulando qualche giudizio comune sulla realtà che vivevano a partire dal loro legame: come se il loro legame fosse in qualche modo sospeso, anche nella sua capacità culturale. Giorgio Agamben con ragione ha messo a fuoco e sottolineato questa riduzione dei fattori alla “nuda vita”. Si dirà: ma non è ovvio questo, se il pericolo di morte diventa la preoccupazione principale? Può sembrare ovvio solo se non vediamo più la distanza che c’è tra il perdere le ragioni per vivere (senza nemmeno deciderlo) in nome della pura sopravvivenza, e invece l’affrontare consapevolmente il rischio di sacrificare qualcosa come prezzo per mantenere le ragioni del vivere.
Lager a cinque stelle
Il sistema mediatico-visivo-digitale fa autorità per una massa enorme di persone: mantiene però ciascuno segregato nella sua individualità, anche quando dà vita a movimenti di massa strutturati come mode. Il sistema, infatti, più che mediare il rapporto tra l’individuo e la realtà, sostituisce quest’ultima con il proprio discorso, e la rende inaccessibile all’individuo. Che esperienza reale della realtà può fare l’individuo, se non attraverso i legami umani di cui vive i drammi e paga i prezzi? Proprio ciò che il sistema, ipnotico e anestetico, lo esonera dal fare: per questo l’ipnosi di massa è il metodo adatto al mondo nuovo, e abbiamo visto con quale successo. È sempre più chiaro che il nostro mondo ha sposato il modello del campo di concentramento, nel quale masse di individui vivono separati negli stessi spazi sociali da cui è bandito ogni segno di identità, appartenenza, legame con un aldilà. Questo è ciò che conta, e non le apparenze dell’abbondanza consumistica: possono esserci anche campi di concentramento a 4 o 5 stelle (Michelin).
È il momento di capire una volta per tutte che l’individualismo non è una pecca morale degli individui, ma è la condizione oggettiva dei nostri legami sociali in via di degradazione e dissolvimento per gli effetti del ménage à trois della società con il discorso del capitalismo e con l’universalismo della tecnoscienza: sono effetti estremamente pervasivi e concreti che già da tempo rimaneggiano le nostre vite e urtano le nostre illusioni etiche. È questa degradazione che ci lascia inermi di fronte ai razzismi (al plurale, please) che essa stessa produce e moltiplica. Invece di coprirci di moralismi, chiunque abbia fatto o faccia esperienza di un autentico legame sociale, ci testimoni come costruisce la sua via di uscita.
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Mario Binasco, autore di questo articolo, è psicoanalista lacaniano e insegna psicologia e psicopatologia dei legami familiari al Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II. Questo suo intervento comparirà in una differente versione nella raccolta di saggi a più firme La vita ristretta dal virus, edizioni Magna Carta, di prossima pubblicazione
Foto Ansa
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