Qualcosa non quadra se ci vuole una regola per poter parlare liberamente

Di Caterina Giojelli
06 Maggio 2018
Mentre dilaga la mania dei "safe space", si moltiplicano i casi di censura nelle università britanniche. E il governo medita di introdurre misure per il free speech

 

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Non si capisce se in Inghilterra sia finalmente arrivato il giorno della vergogna o del buon senso, fatto sta che ora il governo ha deciso di intervenire e dire la sua a proposito di quella commedia grottesca che è diventata l’università britannica al tempo del safe space. Il ministro per l’Università e la Scienza Sam Gyimah ha annunciato multe qualora le autorità accademiche continuino ad avallare la negazione del diritto di parola, «una società nella quale alcune persone pensano di avere il diritto di impedire a qualcuno di esprimere le sue opinioni solo perché impopolari è piuttosto raggelante». Per il governo è assurdo che le associazioni studentesche boicottino opinioni «fuori moda ma perfettamente legali» con la scusa di riparare gli individui da idee e visioni contrastanti con le loro; ma è anche assurdo che ad oltre 30 anni dall’Education Act (che nel 1996 impose alle università di adottare misure ragionevoli per garantire la libertà di parola per il personale, gli studenti e gli oratori ospiti) si sia arrivati al punto di suggerire al dipartimento dell’istruzione di emanare nuove linee guida per assicurare tale diritto.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]BOICOTTARE PER NON DISCRIMINARE. C’è chi nega la censura all’ingrosso. Eppure i casi abbondano: l’annullamento della conferenza della femminista Germaine Greer accusata di “transfobia”, la cacciata del deputato “reazionario” Jacob Rees-Mogg da Bristol, la richiesta di rimozione da tutti gli atenei delle statue di Cecil Rhodes, filantropo dell’Ottocento e imperialista britannico (“razzista!”), la fatwa contro chi indossa sombreri a scopo ludico all’University of Esat Anglia (Uea), il divieto di tenere una conferenza al King’s College per Heather Brunskell-Evans portavoce del Women’s Equality Party, il boicottaggio dell’attivista Lgbt Peter Tatchell, anche lui accusato di transfobia alla Canterbury Christ Church University: sono solo la punta di un iceberg capace di affondare qualsiasi tipo di dibattito e di opinione «fuori moda ma perfettamente legale».
NON DIRE TRUMP. Il Free Speech University Ranking (Fsur, nato dalla rivista Spiked Online, legata a Claire Fox, tra le prime intellettuali di sinistra a denunciare i danni causati alla “generazione fiocco di neve” dal pensiero unico, e al suo Institute of Ideas) monitora 115 atenei britannici e le relative associazioni studentesche classificandoli secondo la propensione alla censura di ciascuno. Ebbene, secondo il Fsur, nel 2018 il 54 per cento delle università censura sistematicamente parole ed espressioni, il 40 per cento le silenzia preventivamente attraverso un’eccessiva regolamentazione, e solo il 6 per cento è veramente libero e aperto. A farne le spese sono quasi sempre le voci degli attivisti antiaborto, provenienti da gruppi cristiani, ma anche quelle delle femministe critiche nei confronti dei movimenti transessuali. Anche la Brexit, Israele, Trump e Unione Europea sono diventati argomenti tabù, con tutte le conseguenze kafkiane del caso: di che si può parlare senza traumatizzare i millennials oggi in università?
OCCHIO AL VANGELO. Ormai c’è un “trigger warning” per  avvertire gli allievi della presenza di argomenti potenzialmente ansiogeni per ogni cosa, perfino per segnalare scene di crocifissione nel Vangelo o la presenza di animali morti nei laboratori di veterinaria. Dal gergo – una neolingua tutta “microaggressions”, “no-platform” (rispettivamente tutto ciò che è percepito come discriminatorio o offensivo, anche se involontario, e tutto ciò che andrebbe censurato in quanto controverso o percepito, appunto, come offensivo) – alla censura il passo è stato brevissimo, generando assurdità ormai assimilate: non è più il contenuto dell’intervento ad essere potenzialmente offensivo, ma la persona che lo esprime.  Timothy Garton Ash, professore di stampo liberal ad Oxford, ci aveva già avvisato: l’isteria del safe space «ci sta portando via la libertà di espressione una fetta alla volta», negli atenei di oggi non potrebbero parlare «Marx, Rousseau, Darwin, Hegel e chiaramente Gesù». Ecco quindi che proprio a Oxford viene annullato un un dibattito antiabortista perché a condurlo sarebbero stati due uomini. Ecco che per liberarsi delle vecchie discriminazioni i teorici di nuovi diritti ne diventano i più acritici seguaci, indossando le divise dei censori. Ed ecco l’intervento della potestà censoria per eccellenza, lo Stato.
PANE E FORMAGGIO. Limitare, respingere, silenziare, come guardiani dello spazio pubblico, perché il nuovo totem degli studenti universitari, della “generazione fiocco di neve”, è oggi il diritto alla sicurezza: non più la libertà di parola, bensì il primato della censura sulla cultura in nome di quel delirio di negazioni chiamato “politicamente corretto”. «Che farsa la moderna larghezza di vedute! Nella moderna civiltà, libertà di parola significa in pratica che non dobbiamo parlare di religione, perché è illiberale. Non dobbiamo parlare di pane e formaggio, perché vuol dire parlare di botteghe. Non dobbiamo parlare della morte, perché l’argomento è deprimente. Non dobbiamo parlare delle nascite, perché l’argomento è indelicato. No, non può durare. Bisogna che qualcosa sopravvenga a infrangere questa curiosa indifferenza, questo strano egoismo, questa strana solitudine che investe milioni di individui», scriveva Chesterton, il principe del paradosso. E paradosso vuole che non sia più possibile parlare di libertà senza linee guida.
Foto microfono da Shutterstock
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