Prima regola: mai isolarsi. La lezione del coronavirus secondo Raffaele Pugliese
Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Accettare realtà e correzione, con umiltà e senza paura di domandare. È la lezione dell’emergenza coronavirus secondo Raffaele Pugliese, medico emerito dell’Ospedale Niguarda di Milano, dove è stato direttore del dipartimento polichirurgico per 15 anni e più di 20 in quello di chirurgia oncologica mininvasiva e d’urgenza. Oggi presiede l’Aims Academy, centro di formazione e ricerca nell’ambito dell’applicazione di nuove tecnologie alle specialità interventistiche, dove contribuisce a lasciare in eredità quello che ha imparato da quando, quasi cinquant’anni fa, giovane medico nel Nord Uganda, viveva con drammaticità la carenza di dispositivi e ha scoperto l’importanza di «non mentire ai pazienti»; fino all’altro ieri, quando la prova vissuta da un fratello, paralizzato a seguito di un ictus, in una casa di riposo in periodo di Covid-19, lo ha spinto a confrontarsi con colleghi contattati su Zoom e a chiedersi come mettere in sicurezza l’edificio, i suoi ospiti e il personale.
Professor Pugliese, che cosa è nato da quel confronto?
Di fronte a indicazioni irricevibili da parte delle autorità competenti e al perdurare di un’assurda contesa tra Stato e Regioni, due autoritarismi che trascuravano totalmente i medici in prima fila contro il virus, abbiamo forzato la situazione e autonomamente ne è nato un protocollo che ha contribuito a contenere significativamente il numero di positivi e soprattutto i decessi.
Ora a che punto siamo con l’emergenza coronavirus?
La curva epidemiologica è in lenta discesa, anche nelle regioni più colpite, come la Lombardia; ma il coronavirus non è scomparso e l’emergenza non è alle spalle. Occorrono accortezza e vigilanza, mascherine e distanziamento sono ancora utili. Tutto questo, però, non è sufficiente: dobbiamo scoprire i portatori sani, facendo tamponi, tanta sierologia e tracciamento dei contagi. Senza un’analisi critica della situazione attuale e uno sforzo maggiore nella diagnostica, infatti, gli errori commessi sono destinati a ripetersi e non saremo pronti ad affrontare le sfide che ci attendono.
Come ci siamo comportati finora?
Quando il presidente del Consiglio ha dichiarato il 31 gennaio lo stato di emergenza è stato un atto puramente formale, senza alcuna iniziativa concreta: avevamo i protocolli per gestire una pandemia? Avevamo letti, respiratori, medici e infermieri a sufficienza? Chi si è posto davvero queste domande tra governo, Protezione civile e Istituto superiore di sanità? La verità è che si è verificato uno stallo micidiale fino a fine febbraio, un errore gravissimo che si è aggiunto alle enormi responsabilità della Cina (che ha nascosto i fatti) e dell’Organizzazione mondiale della sanità (che è stata reticente a lungo). Come se non bastasse, i professionisti che hanno dimostrato capacità di intuizione non sono stati ascoltati.
La risposta dei medici invece è stata all’altezza?
L’epidemia è esplosa in modo drammatico e abbiamo dovuto inseguirla da subito, ma la risposta di ospedali, medici e infermieri è stata impressionante: dobbiamo conservare una gratitudine vera nei loro confronti. Sono stati una comunità all’opera: non si sono tirati indietro, talvolta anche in difetto di strumentazioni adeguate, sono scesi in guerra contro il Covid-19, hanno verificato intuizioni emerse dall’esperienza, hanno cominciato a conoscere il virus, a passarsi informazioni e capire come curarlo. All’inizio non sapevamo nemmeno quale fosse la giusta pressione di ossigeno per i malati. Ma è anche dagli errori che si impara.
È la politica a non aver ascoltato?
Medici e ospedali non sono stati ascoltati e quelli che volevano parlare sono stati intimoriti, come in un regime totalitario. L’unico rapporto che ha avuto la politica è con gli esperti dell’unità di crisi. «Ci affidiamo alla scienza», hanno ripetuto come un mantra, ma è un’argomentazione debole: la politica non deve farsi guidare da esperti, deve fare domande pertinenti e tradurre in spunto di governo le osservazioni vere. Se un anatomopatologo non avesse fatto autopsie sui morti di coronavirus – nonostante una circolare del ministero della Sanità avesse ordinato di non farne – non avremmo scoperto che i malati erano affetti da tromboembolie e arteriopatie. Per fortuna anche quel medico ha ritenuto irricevibile quell’imposizione.
L’emergenza coronavirus ha messo in crisi la sanità lombarda?
Semmai ne ha svelato punti di forza e debolezze. L’organizzazione ospedaliera lombarda è un’eccellenza che ingiustamente è stata attaccata: garantire parità nell’offerta ai cittadini da parte di ospedali pubblici e privati, rimborsati allo stesso modo dalla Regione, è un bene per tutti. La medicina del territorio, invece, si è rivelata più debole, almeno rispetto a quella veneta che, utilizzando una diversa organizzazione, ha ridotto i ricoveri ai pazienti più gravi, dimostrando di avere un sistema territoriale capace di sostenere a domicilio i sintomatici meno gravi, associando fin dall’inizio al lockdown una campagna diagnostica con tamponi molto intensa.
Perché in Lombardia non si è fatto come in Veneto?
La Regione più duramente colpita si è trovata in situazione di debolezza, anche perché in Lombardia la legislazione della medicina del territorio tutt’ora attende che sia portata a compimento la controriforma avviata quando era presidente Roberto Maroni e alla quale i medici avevano detto di no. Così che, dopo un inizio promettente, abbiamo scoperto di non essere in grado di fornire adeguato numero di presidi ai medici di famiglia e del lavoro e che le Ats non avevano personale per gestire l’emergenza. Abbiamo smesso di fare tamponi – peraltro con la benedizione dell’Oms e dell’Istituto superio re di sanità, che raccomandavano di farli solo ai pazienti sintomatici ricoverati – abbandonando gente a casa fino a quando arrivava in ospedale, mentre in realtà avremmo dovuto andare a scovare paucisintomatici e asintomatici.
Si è detto che i tamponi fotografano il presente e che fare esami a tappeto costa troppo.
Avere una fotografia del presente e fare analisi statistiche sui tamponi a distanza di periodi ravvicinati, per esempio di 14 giorni, su di un campione ben costruito, può essere molto utile per conoscere la diffusione del virus e intervenire isolando i positivi asintomatici. È quello che, nel mio piccolo, ho suggerito di fare alla casa di risposo che ospita mio fratello quando a marzo hanno interdetto le visite dei familiari. Farlo su larga scala costa troppo? Non so se costi più dei 9 miliardi di euro di Pil che, secondo la Banca d’Italia, l’emergenza coronavirus sta costando al Paese ogni settimana; ma se costasse troppo, almeno potrebbero dircelo, anziché litigare sui dati.
Cosa insegna questa vicenda a chi ha responsabilità di politica sanitaria?
Che la vita è fatta di intuizioni e profezie: quando qualcuno ha un’intuizione è bene mettersi in ascolto e imparare, copiando quello che fanno gli altri, come hanno fatto i medici imparando dai colleghi di fronte alle novità. Non avevamo tamponi e reagenti? Costavano troppo? Avrebbero fatto meglio a dircelo. Non gliel’hanno detto gli esperti? Può essere. Ma un rapporto di fiducia, come lo è quello tra politici ed elettori, presuppone che si dica la verità, anche di fronte agli errori, che sono da riconoscere con umiltà, altrimenti permane l’arroganza. Forse, però, è prevalso il tornaconto, e quando a imperare è il tornaconto, non sorprende che si generino azioni moralmente inadeguate.
Foto Ansa
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