Prima regola: mai isolarsi. La lezione del coronavirus secondo Raffaele Pugliese

Di Matteo Rigamonti
16 Giugno 2020
Trincerate dietro protocolli e comitati, le istituzioni si sono perse ciò che di utile suggeriva la realtà. Un luminare della medicina spiega la lezione dell'emergenza Covid-19 imparata sul campo
Riunione dell'unità di crisi del governo Conte per l'emergenza coronavirus

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Accettare realtà e correzione, con umiltà e senza paura di domandare. È la lezione dell’emergenza coronavirus secondo Raffaele Pugliese, medico emerito dell’Ospedale Niguarda di Milano, dove è stato direttore del dipartimento polichirurgico per 15 anni e più di 20 in quello di chirurgia oncologica mininvasiva e d’urgenza. Oggi presiede l’Aims Academy, centro di formazione e ricerca nell’ambito dell’applicazione di nuove tecnologie alle specialità interventistiche, dove contribuisce a lasciare in eredità quello che ha imparato da quando, quasi cinquant’anni fa, giovane medico nel Nord Uganda, viveva con drammaticità la carenza di dispositivi e ha scoperto l’importanza di «non mentire ai pazienti»; fino all’altro ieri, quando la prova vissuta da un fratello, paralizzato a seguito di un ictus, in una casa di riposo in periodo di Covid-19, lo ha spinto a confrontarsi con colleghi contattati su Zoom e a chiedersi come mettere in sicurezza l’edificio, i suoi ospiti e il personale.

Professor Pugliese, che cosa è nato da quel confronto?

Di fronte a indicazioni irricevibili da parte delle autorità competenti e al perdurare di un’assurda contesa tra Stato e Regioni, due autoritarismi che trascuravano totalmente i medici in prima fila contro il virus, abbiamo forzato la situazione e autonomamente ne è nato un protocollo che ha contribuito a contenere significativamente il numero di positivi e soprattutto i decessi.

Ora a che punto siamo con l’emergenza coronavirus?

La curva epidemiologica è in lenta discesa, anche nelle regioni più colpite, come la Lombardia; ma il coronavirus non è scomparso e l’emergenza non è alle spalle. Occorrono accortezza e vigilanza, mascherine e distanziamento sono ancora utili. Tutto questo, però, non è sufficiente: dobbiamo scoprire i portatori sani, facendo tamponi, tanta sierologia e tracciamento dei contagi. Senza un’analisi critica della situazione attuale e uno sforzo maggiore nella diagnostica, infatti, gli errori commessi sono destinati a ripetersi e non saremo pronti ad affrontare le sfide che ci attendono.

Raffaele Pugliese

Come ci siamo comportati finora?

Quando il presidente del Consiglio ha dichiarato il 31 gennaio lo stato di emergenza è stato un atto puramente formale, senza alcuna iniziativa concreta: avevamo i protocolli per gestire una pandemia? Avevamo letti, respiratori, medici e infermieri a sufficienza? Chi si è posto davvero queste domande tra governo, Protezione civile e Istituto superiore di sanità? La verità è che si è verificato uno stallo micidiale fino a fine febbraio, un errore gravissimo che si è aggiunto alle enormi responsabilità della Cina (che ha nascosto i fatti) e dell’Organizzazione mondiale della sanità (che è stata reticente a lungo). Come se non bastasse, i professionisti che hanno dimostrato capacità di intuizione non sono stati ascoltati.

La risposta dei medici invece è stata all’altezza?

L’epidemia è esplosa in modo drammatico e abbiamo dovuto inseguirla da subito, ma la risposta di ospedali, medici e infermieri è stata impressionante: dobbiamo conservare una gratitudine vera nei loro confronti. Sono stati una comunità all’opera: non si sono tirati indietro, talvolta anche in difetto di strumentazioni adeguate, sono scesi in guerra contro il Covid-19, hanno verificato intuizioni emerse dall’esperienza, hanno cominciato a conoscere il virus, a passarsi informazioni e capire come curarlo. All’inizio non sapevamo nemmeno quale fosse la giusta pressione di ossigeno per i malati. Ma è anche dagli errori che si impara.

È la politica a non aver ascoltato?

Medici e ospedali non sono stati ascoltati e quelli che volevano parlare sono stati intimoriti, come in un regime totalitario. L’unico rapporto che ha avuto la politica è con gli esperti dell’unità di crisi. «Ci affidiamo alla scienza», hanno ripetuto come un mantra, ma è un’argomentazione debole: la politica non deve farsi guidare da esperti, deve fare domande pertinenti e tradurre in spunto di governo le osservazioni vere. Se un anatomopatologo non avesse fatto autopsie sui morti di coronavirus – nonostante una circolare del ministero della Sanità avesse ordinato di non farne – non avremmo scoperto che i malati erano affetti da tromboembolie e arteriopatie. Per fortuna anche quel medico ha ritenuto irricevibile quell’imposizione.

L’emergenza coronavirus ha messo in crisi la sanità lombarda?

Semmai ne ha svelato punti di forza e debolezze. L’organizzazione ospedaliera lombarda è un’eccellenza che ingiustamente è stata attaccata: garantire parità nell’offerta ai cittadini da parte di ospedali pubblici e privati, rimborsati allo stesso modo dalla Regione, è un bene per tutti. La medicina del territorio, invece, si è rivelata più debole, almeno rispetto a quella veneta che, utilizzando una diversa organizzazione, ha ridotto i ricoveri ai pazienti più gravi, dimostrando di avere un sistema territoriale capace di sostenere a domicilio i sintomatici meno gravi, associando fin dall’inizio al lockdown una campagna diagnostica con tamponi molto intensa.

Perché in Lombardia non si è fatto come in Veneto?

La Regione più duramente colpita si è trovata in situazione di debolezza, anche perché in Lombardia la legislazione della medicina del territorio tutt’ora attende che sia portata a compimento la controriforma avviata quando era presidente Roberto Maroni e alla quale i medici avevano detto di no. Così che, dopo un inizio promettente, abbiamo scoperto di non essere in grado di fornire adeguato numero di presidi ai medici di famiglia e del lavoro e che le Ats non avevano personale per gestire l’emergenza. Abbiamo smesso di fare tamponi – peraltro con la benedizione dell’Oms e dell’Istituto superio re di sanità, che raccomandavano di farli solo ai pazienti sintomatici ricoverati – abbandonando gente a casa fino a quando arrivava in ospedale, mentre in realtà avremmo dovuto andare a scovare paucisintomatici e asintomatici.

Si è detto che i tamponi fotografano il presente e che fare esami a tappeto costa troppo.

Avere una fotografia del presente e fare analisi statistiche sui tamponi a distanza di periodi ravvicinati, per esempio di 14 giorni, su di un campione ben costruito, può essere molto utile per conoscere la diffusione del virus e intervenire isolando i positivi asintomatici. È quello che, nel mio piccolo, ho suggerito di fare alla casa di risposo che ospita mio fratello quando a marzo hanno interdetto le visite dei familiari. Farlo su larga scala costa troppo? Non so se costi più dei 9 miliardi di euro di Pil che, secondo la Banca d’Italia, l’emergenza coronavirus sta costando al Paese ogni settimana; ma se costasse troppo, almeno potrebbero dircelo, anziché litigare sui dati.

Cosa insegna questa vicenda a chi ha responsabilità di politica sanitaria?

Che la vita è fatta di intuizioni e profezie: quando qualcuno ha un’intuizione è bene mettersi in ascolto e imparare, copiando quello che fanno gli altri, come hanno fatto i medici imparando dai colleghi di fronte alle novità. Non avevamo tamponi e reagenti? Costavano troppo? Avrebbero fatto meglio a dircelo. Non gliel’hanno detto gli esperti? Può essere. Ma un rapporto di fiducia, come lo è quello tra politici ed elettori, presuppone che si dica la verità, anche di fronte agli errori, che sono da riconoscere con umiltà, altrimenti permane l’arroganza. Forse, però, è prevalso il tornaconto, e quando a imperare è il tornaconto, non sorprende che si generino azioni moralmente inadeguate.

Foto Ansa

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