Siamo populisti (ma non nel senso che pensate voi)

Di Giancarlo Cesana
02 Marzo 2019
A pochi mesi dalle elezioni europee, la lezione di T. S. Eliot per capire l’oggi e fenomeni come la Lega e i Cinquestelle (e Trump)
Una installazione che riproduce il volto (a metà) di Donald Trump

Articolo tratto dal numero di Tempi di febbraio 2019.

Mauro Grimoldi, detto Ziche, professore di lettere presso il Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza, manda agli associati a “Esserci” e ai suoi amici una rassegna stampa assai intelligente. La cito perché è uno strumento per capire e farsi un giudizio, cosa non facile oggi. Nella rassegna ogni tanto sono riportati articoli di First Things, che, se andate a vedere in internet, è definita come la «rivista di religione e vita pubblica più influente d’America». Venne fondata nel 1990 da Richard Neuhaus, pastore luterano convertito al cattolicesimo e ordinato prete in quell’anno. È pubblicata a New York e vi scrivono cattolici, ortodossi, anglicani, protestanti ed ebrei, tra i quali alcuni noti anche in Italia, come George Weigel, Mary Ann Glendon (già ambasciatrice presso la santa Sede), Michael Novak e rabbi David Novak. Tutto questo per sottolineare l’apertura di Grimoldi, che cerca di valorizzare chi tra i cristiani si dà da fare con il pensiero, laddove Paolo VI si domandava se Dio aveva dato ai cristiani l’intelligenza per usarla o per farne olocausto. 

Comunque, First Things nel numero di dicembre riporta un articolo di Robert C. Koons, professore di filosofia all’Università del Texas ad Austin, dedicato allo schieramento a favore del populismo da parte di Thomas Stearns Eliot (“T.S. Eliot, Populist”). T.S. Eliot è, tra l’altro, l’autore dei Cori da “La Rocca”, che Luigi Giussani e, dopo di lui, don Fabio Baroncini e lo stesso Grimoldi ci hanno insegnato ad amare come capolavoro poetico – e quindi di vero giudizio – sui rapporti tra la Chiesa e il mondo. Fosse solo per questo, la dichiarazione di Eliot per il populismo va attentamente considerata. E, in effetti, ne vale la pena. L’articolo di Koons è stato tradotto e riportato su tempi.it del 28 novembre 2018. Di seguito ne ripeto i passaggi essenziali, con i miei commenti.

Circa cento anni fa in un saggio intitolato “Notes towards the definition of culture” (si potrebbe tradurre come “Considerazioni per una definizione della cultura”) Eliot introdusse una significativa distinzione tra classe dirigente (letteralmente «classe sociale superiore», che non corrisponde propriamente a classe dirigente) ed élite. La prima sarebbe ereditata e legata quindi a famiglie e a luoghi dove le famiglie si sono distinte. La seconda si formerebbe invece sulla base della competenza umanistica, scientifica e tecnica, acquisita tipicamente nelle grandi università, selettive e cosmopolite. Eliot pensava evidentemente a Oxford, Cambridge, Harvard e simili, non alle nostre. La classe dirigente sarebbe quindi fondamentalmente conservatrice, terreno fecondo per la creatività letteraria e artistica, mentre l’élite sarebbe sterilmente ossessionata dalla necessità di rompere con la tradizione attraverso la proposizione di un’arte e di una creatività, che devono essere per forza nuove.

Corrispondente alla distinzione tra classe dirigente ed élite è la distinzione tra “livellatori” e populisti, che non coincidono con le due categorie precedenti, ma ne sono oppositori o alleati. Così i livellatori, che ai tempi di Eliot (come nei nostri) includevano liberali e “marxisti culturali” (la cosiddetta intellighentsia di sinistra) proclamano l’eguaglianza, si oppongono alla classe dirigente e, all’interno di essa, alla famiglia e alla comunità locale. I populisti combattono il dominio delle élite con un atteggiamento naturalmente conservatore. I livellatori (in nome della meritocrazia) sono contro ogni tipo di gerarchia, per quanto antica e venerabile: dei genitori sui figli, dei preti sulle chiese, delle classi superiori su quelle inferiori. I populisti invece intendono liberare le comunità naturali da coloro che vogliono governarle in nome della ragione, della scienza e della competenza – manager, burocrati e accademici – o di grandi organizzazioni come le agenzie governative, le università, le multinazionali e gli enti superiori che agiscono attraverso conoscenza astratta e procedure.

Se pensiamo alla attuale situazione europea e italiana in particolare, possiamo constatare quanto la visione di Eliot abbia aspetti di carattere geniale e profetico. Cinquestelle e Lega, per quanto con sfumature diverse e a volte importanti, proclamano di essere contro la burocrazia europea, il dominio delle multinazionali, la prevaricazione della scienza, le tendenze culturalmente totalitarie della grande stampa, la politica come espressione di gruppi di potere più o meno occulti. In positivo affermano “l’uno vale uno” come sottolineatura della dignità del voto e della opinione dei singoli, l’autonomia delle nazioni e delle comunità locali, la difesa dell’ambiente, la rilevanza della tradizione civile e, assai meno, religiosa, il diritto a un lavoro non usurante e a una esistenza protetta dallo Stato. 

LA CULTURA “VERA”

Come anticipato, Eliot prende decisa parte per i populisti sottoponendo le élite a un’aspra critica. Queste non possono rivendicare la loro supremazia su base meritocratica, perché se è vero che non vi sono meriti nell’eredità di classe, è altrettanto vero che il talento e le doti morali, cui solitamente si attribuisce il merito, sono prodotti in parte non indifferente dalla genetica e dall’educazione. Gli uomini con le loro caratteristiche costituzionali sono formati all’interno di una classe sociale, che è essenziale e non estrinseca o sovrapposta all’individuo. Vi è poi il problema della cultura, che Eliot intende come l’incarnazione in tempi e luoghi particolari di una religione – sentimento di appartenenza e dipendenza, dico io – universale e quindi di una modalità espressiva più meno cosciente della profondità del vivere. Una società puramente secolare e a-religiosa mancherebbe di cultura nel senso di Eliot. Così mancherebbe di cultura una società dove la religione venisse completamente privatizzata e/o resa gnostica, ovvero disincarnata. La pretesa livellatrice delle élite produce così una vera e propria anticultura con esiti deplorevoli. A livello alto, l’anticultura delle élite si esprime come arte ironica, ideologica e corrosiva, profanando il sacro, mischiato a escrementi e urina, sovrapponendo una sessualità deviata e trasgressiva alla vita ordinaria, inclusa quella domestica e dei bambini. 

La cultura “vera”, nella sua più nobile espressione, è certamente il prodotto di una élite artistica e critica, ma questa è fondata e nutrita dalla classe dirigente, cui essa risponde. Il talento e la moralità non bastano, se non sono sponsorizzati dalle istituzioni create dalla classe dirigente. Così una cultura sana produce a livello inconscio – «folk culture» – costumi e sentimenti popolari che la riflettono e a livello conscio una sempre più profonda capacità di giudizio critico. La folk culture è resistente e unificante, perpetuata dalle famiglie, dalle scuole e dalle associazioni. La cultura dei livellatori, invece, consciamente si esprime contro la tradizione e a livello inconscio è popolare nel senso di «pop culture», ovvero di impresa di divertimento con caratteristiche eminentemente commerciali, transitorie per quanto additive (crea conformismo e dipendenza): un oppio delle masse, intorpidente, anestetizzante ed evasivo. 

IL COMPITO VERSO I GIOVANI

Koons cita Eliot che dice: «Il sogno di Marx per una perfetta eguaglianza sociale è una fantasia destituita di fondamento. In assenza di una classe dirigente, i manager, gli esperti e gli scienziati eserciteranno una influenza eccessiva su tutte le direzioni della vita sociale, inclusa l’educazione, la religione e la cultura… Le élite (…) saranno fatte di individui, i cui soli legami saranno determinati dagli interessi professionali, senza nessuna coesione o continuità sociale». Le grandi università con i loro criteri di selezione e cooptazione, attraverso una meritocrazia competitiva, basata soprattutto sui titoli di ricerca, senza tenere conto della tradizione e della fedeltà a questa, saranno i luoghi privilegiati dello sviluppo sociale futuro.

Così Eliot prende decisamente partito per i «populisti conservatori» e suggerisce obiettivi per la loro lotta, anche di carattere economico, che non commento perché più pertinenti alla società americana che alla nostra. In particolare per l’istruzione suggerisce provvedimenti che contrastino l’isolamento educativo delle élite in college iperselettivi – altro fenomeno tipico dei paesi anglosassoni – attraverso un allentamento degli standard di selezione e una maggiore attenzione alle esigenze regionali e locali. Soprattutto afferma che «insegnanti, studiosi, critici, intellettuali, preti e pastori, artisti e genitori, si assumano nuovamente il compito di trasmettere ai giovani la tradizione culturale nei suoi livelli più alti e significativi, riconoscendo che anticultura e cultura pop non possono essere la base per una società sana e intelligente».

Il populismo quindi, secondo Eliot, è un fenomeno positivo. Io condivido questa valutazione con riguardo al fatto che molta gente non ne può più degli stereotipi imposti dalle élite sulla relativizzazione della vita, della sessualità e della identità, per citare aspetti decisivi nella concezione della persona e della società. Donald Trump, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Viktor Orban e simili non sono solo casi impazziti della politica. Sono anche l’espressione della volontà di vivere e progredire secondo un’esperienza, che ha dalla sua parte non solo la durata dei secoli, ma soprattutto la corrispondenza con quello che si desidera e si riconosce vero. Però – c’è un però importante – il populismo, come si manifesta oggi, è in assai piccola parte difesa della cultura tradizionale, dei corpi intermedi e del pluralismo. La politica della Lega ha di questi aspetti, ma quella dei Cinquestelle, molto meno: è soprattutto discorso da bar e quindi cultura pop, più che influenzata, indotta dalle élite, con il loro scetticismo e cinismo anti-tutto. Si pensi alle campagne indiscriminate dei grandi giornali contro i politici (e la classe dirigente in genere) e all’imperversare dei talk-show dove i moderni populisti trovano il pascolo preferito per ingrassare. Se siamo ridotti come siamo, è perché è stata diffusamente alterata la mentalità di un popolo, che a volte sembra divenuto da civile, quasi barbarico.

FAR EMERGERE IL POSITIVO

In conclusione, mi sono lanciato nel commento delle riflessioni di Eliot su classe dirigente buona ed élite cattiva, con i loro alleati populisti e livellatori non perché le ritenga indubitabili. Verosimilmente le due realtà vanno insieme, sostenendosi e corrompendosi a vicenda. Eliot indica un aspetto positivo del populismo, che nel diffuso dibattito in cerca di interpretazioni non viene mai menzionato. 

Quindi, seguendo criticamente l’autore, nel populismo non solo c’è un motivo di speranza – anche se piuttosto piccola secondo me –, c’è una necessità di impegno e di scelta – non meccanicamente a favore dei partiti che lo sostengono – per fare emergere il positivo che può portare. E, come sapete, fra qualche mese l’Europa vota.

Foto Ansa

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