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Piuttosto che proseguire l’attuale governo pasticcio, meglio Renzi (e non è mica detto che vincerà lui)

L'operazione Napolitano-Letta per le riforme e la pacificazione è fallita. Talvolta, quando la posta è tutto (nel caso la tenuta decente di uno stato), si deve saper scegliere la sconfitta migliore

Lodovico Festa
09/02/2014 - 3:40
Politica
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Il governino Letta è morto. Il peso internazionale dell’Italia non è mai stato così basso. Persino Giorgio Napolitano lo ha notato sul caso dei marò in India. E ciò mentre i primi problemi per la nostra economia derivano da scelte internazionali come quelle dell’Unione. Intanto si sta disarticolando il sistema bancario: dal Monte dei Paschi a una Banca Intesa dove i ben poco chiari giochi sulla Compagnia San Paolo – con le solite sponde di settori della magistratura – s’intrecciano alle vicende del dominus Nanni Bazoli azzoppato dai casi di società amiche come Tassara e Mittel. Nostre industrie strategiche (dall’Alitalia a Telecom) sono sotto assedio (anche per le inevitabili fughe di Banca Intesa). Mentre lo sfarinamento dello Stato si manifesta pure in vicende giudiziarie meno politiche come con le dichiarazioni del presidente della Corte d’appello di Firenze pre-sentenza caso Meredith.

Certo vi sono le esigenze di stabilità, le scelte necessarie a creare equilibri che reggano nel futuro, le mosse (come abolire il Senato) per recuperare un qualche rapporto con una società imbizzarita. Ma è indispensabile ricordarsi come in politica i tempi siano fondamentali. Se nei prossimi mesi le macerie del governino ti cascano addosso, se in qualche modo sarai responsabile per non avere prosciugato un pantano sempre più vasto, non vi saranno più le basi per esercitare anche i limitati rapporti di forza che oggi resistono. Non ci sono né una nazione né un insieme di corpi dello Stato né un sistema di influenze internazionali che ti concedano tempo.

Il tentativo di Napolitano, Letta, Alfano e degli ambienti nazionali e stranieri che li hanno sostenuti, di modificare dall’alto lo Stato è fallito per un misto di superbia (l’idea di governare tutto perché si è superiori intellettualmente) e di pavidità (l’incapacità nel favorire un clima di pacificazione) e fa marcire tutto. L’operazione “Lettino” post ottobre 2013 si basava sulla convinzione che Berlusconi avesse esaurito la capacità di rappresentare ceti sociali fondamentali per il governo dell’Italia. Dietro c’erano anche argomenti ragionevoli, come quello che non si può costruire una politica solo sul presupposto dell’eternità di Berlusconi. Però, poi, in questi mesi si è ben constatato non solo che, pur non essendo eterno, il leader di Forza Italia non è stato ancora seppellito, ma anche che Alfano, oltre a non essere lui stesso un leader “eterno”, non è neppure in grado di durare cinque minuti.

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Adesso il nuovo argomento in campo per rinviare l’invece urgentissima soluzione di continuità degli equilibri politici in corso, è che così facendo si lascia il campo a Matteo Renzi, espressione di molteplici ambienti che non piacciono per la collocazione a sinistra. Non è un argomento ininfluente per chi coltiva prospettive e opzioni liberal-conservatrici. Però sia Renzi sia un’eventuale, possibile presidenza della Repubblica di Romano Prodi sono comunque molto meglio del pasticcio Letta-Napolitano, perché la tendenza più pericolosa oggi per lo Stato, la società e l’economia italiani è quella rappresentata dall’elitismo, dall’idea di risolvere i problemi solo dall’alto: da ciò – grazie anche a quel disastro anticipatore del governino che è stato Mario Monti – è nata la bomba di protesta nichilistica del grillismo al 25 per cento dei voti.

L’obiettivo raggiungibile del centrodestra
Talvolta, quando la posta è tutto (nel caso la tenuta decente di uno stato e una nazione), si deve saper scegliere la sconfitta migliore. Nel caso un governo Renzi, che peraltro almeno esprimerebbe rapporti reali con la società, e non solo cabale e camarille indecifrabili. E magari si potrebbe approfittare anche del possibile clima di dialogo tra avversari per individuare alcuni percorsi di quel riformismo costituzionale che i vari pasticcieri del governino hanno così abilmente e sistematicamente svuotato.

Detto questo, aspetterei nel centrodestra a fasciarmi la testa politica: con il berlusconismo che presidia una parte centrale del voto di ceti medi e popolari (dal 20 al 24 per cento), con una Lega che andrebbe aiutata a raggiungere almeno il 4,5 per cento, è proprio impossibile immaginare uno schieramento che raccolga dagli ex An a Pier Ferdinando Casini oltre al 10 per cento dei voti, puntando alla vittoria?

Naturalmente questo obiettivo è irraggiungibile se ci si occuperà essenzialmente di ceto politico (vedi le incredibili battaglie sulle preferenze) o in generale dei propri vari amichetti (costituzionalisti, farmaceutici, forestali, agricoltori, banchieri o costruttori che siano), però se il centrodestra non berlusconiano sposasse la bandiera della riforma costituzionale (presidenzialismo, verifica del federalismo possibile, separazione delle carriere togate, centralità del cittadino nella politica e nell’amministrazione, sussidiarietà) e offrisse al centrodestra “che c’è” un vero candidato al Quirinale (cioè non un nanetto di qualche vecchia o nuova nomenklatura), la partita sarebbe aperta.

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