Giudice in pensione dal 2010. Gli viene diagnosticato un male incurabile. Si reca in Svizzera, in una clinica per “suicidi assistiti”: muore l’11 aprile 2013. Tre mesi dopo, l’autopsia dice che i medici avevano sbagliato: non c’era alcun tumore.
I (pochi) commenti mediatici si concentrano non sul viaggio della morte procurata e “legale” nel cuore della civilissima Europa, né sulla circostanza che non è il primo caso – ricordiamo tutti la vicenda di Lucio Magri –, ma sul fatto che Pietro D’Amico sia stato ucciso “inutilmente”, visto che era sano. È invece “sano” di mente chi ritiene che se D’Amico avesse avuto veramente il cancro, era giusto ammazzarlo?
Il male incurabile lo ha un sistema giuridico nel quale il dato di realtà è sempre più sostituito dalla percezione, e nel quale trova tutela non il diritto fondato sul rispetto della natura dell’uomo, ma qualcosa di transitorio e di mutevole come il desiderio.
La ferita nell’ordinamento l’ha provocata 35 anni fa la legge sull’aborto: costruita sul modello dell’“aborto terapeutico”, in realtà permette di uccidere il concepito in base al mero timore che nasca malformato; allora come oggi, una percezione soggettiva si trasforma in una sentenza di morte. Poiché il diritto alla vita è il fondamento di tutti gli altri, non deve sorprendere che la logica della sottomissione della realtà all’arbitrio della soggettività scorra dalla fase iniziale dell’esistenza a quella conclusiva.
E non è finita: nella legge sulla omofobia, che destra e sinistra hanno fretta di approvare alla Camera, la legge penale è chiamata a tutelare l’«attrazione» verso una persona dello stesso sesso e la «percezione che una persona ha di sé come appartenente» a un «genere (…) anche se opposto al proprio sesso biologico». La civiltà sta nel contrastare questa deriva di morte o nel lasciare che ci travolga del tutto?