
Per investire nella scuola, ripartiamo dal “chi”

La scuola è presente fin dall’inizio nelle priorità del nuovo Governo Draghi. Già al Meeting di Rimini l’ex governatore della Bce aveva evidenziato come per essere in grado di gestire il cambiamento è necessario investire di più in educazione dei giovani. E nel discorso al Senato ha assegnato alla scuola un ruolo prioritario su cui fondare il rilancio del Paese. Un calendario aggiornato, contenuti più attuali e insegnanti adeguati sono le linee guida su cui il Governo intende lavorare.
Nel suo discorso programmatico il neo presidente del Consiglio ha dimostrato di aver ben chiaro, in tema di educazione, il “cosa”, ovvero nuovi programmi, materie che integrano lingue e nuovi saperi, e il “come”, con calendari più adeguati – evitando dad e chiusure.
Manca una riflessione sul “chi”, sul soggetto che in una società moderna e plurale, deve occuparsi di educazione.
E se questo governo vuole imprimere un cambio di passo, come sembra, dovrebbe includere nella propria visione anche una riflessione compiuta su di un elemento altrettanto rilevante e prioritario, indispensabile per una scuola che guarda al futuro: quello del pluralismo educativo.
In Italia la scuola è gestita dallo Stato per il 90%. Una percentuale altissima, che non ha eguali in nessun Paese del mondo. Ma gli 850 mila alunni che nel 2020 si sono iscritti ad una scuola paritaria, ovvero a quel 10% di scuole che hanno un gestore diverso dallo Stato, oltre 500 mila sono bambini dell’infanzia: le percentuali di primaria, secondaria di primo e secondo grado sono quindi rispettivamente il 6,7%, il 4% e il 4,3% del totale. Una miseria.
Eppure anche in questa pandemia è apparso evidente come l’educare i giovani sia un compito condiviso da tutta la società – dalla famiglia alla scuola, dalle istituzioni alle imprese. Una società sana crea scuole e si fa carico direttamente dell’educazione dei propri giovani. Ma questo in Italia sembra ostacolato, a volte impedito, sia da un dibattito ideologico e astratto, che vive sull’equazione che pubblico è sinonimo di statale, sia da una inerzia burocratica che vede nell’iniziativa della società tendenzialmente un problema, o un nemico da limitare.
Ma qualcuno si ribella e si vede qualche segnale in questo senso: cooperative di genitori, enti del terzo settore, ma anche grandi imprese o fondi di investimento costruiscono, sostengono o sviluppano imprese educative, spesso prendendo il posto di scuole fondate e gestite da ordini religiosi che faticano a sopravvivere.
Un obiettivo di un Governo che crede nel rilancio della scuola dovrebbe essere anche quello di portare al 30% l’offerta educativa privata, libera, sociale, in un quadro semplice e coerente di sistema integrato di istruzione.
Che cosa manca per arrivare a questo obiettivo? Per aiutare e assecondare questa spinta della società a farsi carico dell’educazione dei propri giovani?
Avanzo qualche proposta iniziale, certamente incompleta, che aiuterebbe lo sviluppo di una cultura dell’impresa educativa, non come “fatica di Sisifo”, ma come valore per la società.
- Servono più insegnanti e insegnanti più giovani. Oggi diventare insegnante, nel senso di poter stipulare un contratto a tempo indeterminato con una qualsiasi scuola paritaria, è una fatica improba. È necessario laurearsi (naturalmente), conseguire crediti formativi specifici (ovvio), poi si deve attendere di partecipare ad un concorso per un posto pubblico (perché?), e, attraverso quello ottenere una “abilitazione”. Cosa che richiede anche dieci anni. La prima proposta è quindi molto semplice. Ogni persona laureata, che ha anche svolto i corsi specifici in materie pedagogiche, può essere assunto per fare l’insegnante, e risulta abilitato dopo il primo anno di prova, se confermato. Punto.
- Accanto agli insegnanti, per fare delle scuole servono degli edifici, che vanno manutenuti, ristrutturati, modificati secondo le esigenze che via via si presentano. Sarebbe importante poter permettere anche ai gestori delle scuole paritarie l’accesso ai fondi per l’edilizia scolastica, nonché alle agevolazioni concesse alle imprese per il rinnovo del patrimonio edilizio (ad esempio il bonus del 110%, appena approvato e in via di rifinanziamento). Al contempo edifici e proprietà pubbliche possono essere messi a disposizione di imprese educative gratuitamente, dallo Stato e dagli Enti Locali, in ragione del valore del servizio educativo. Infine, come si incentivano start up, imprese che assumono, attraverso sgravi fiscali e contributivi, misure specifiche per scuole che iniziano potrebbero aiutare al nascere o al crescere di imprese educative.
- È sempre più diffusa la consapevolezza che gli investimenti in educazione siano oggi quelli più remunerativi, per il futuro proprio e dei propri figli. In questo senso il costo che grava sulle famiglie per scegliere l’educazione per i propri figli potrebbe e dovrebbe essere deducibile fiscalmente, per intero. Al contempo non tutti si possono permettere di investire nelle rette delle scuole paritarie o libere. Potrebbe essere utile aumentare lo strumento del prestito, magari garantito dallo Stato, così come quello del voucher che ogni studente (in base al reddito) può destinare all’istituto educativo che preferisce.
Aumentare gli insegnanti, favorire chi costruisce scuole, aumentare la libertà nella scelta educativa: tre modi semplici perché l’impresa educativa sia posto al centro dell’agenda politica. Una garanzia di libertà che è condizione per lo sviluppo, il rilancio, la ricostruzione. Perché in chi educa è riposta la speranza della Nazione.
Foto Ansa
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