Parisi, manager Fastweb uscito da anni di gogna mediatica: «Mi dispiace, ma la giustizia non funziona»

Di Lodovico Festa
27 Ottobre 2013
Detenzione preventiva, sequestro dei beni, gogna mediatica. Una via crucis iniziata nel 2010. Ora il verdetto di assoluzione. Intervista a Stefano Parisi: «Serve riforma della giustizia»

Nel gennaio 2007 un articolo di Giovanni Pons su Repubblica svelava l’esistenza di un’indagine in corso per una complessa truffa fiscale perpetrata da alcuni malfattori che non riversavano l’Iva pagata da società loro clienti: in questa frode erano coinvolti come pagatori dell’Iva non versata Telecom Italia e Fastweb. In quell’articolo si annunciava che il fondatore di Fastweb Silvio Scaglia era indagato e la sua azienda coinvolta nella truffa. Nel febbraio 2008 la Guardia di Finanza chiudeva l’inchiesta escludendo la partecipazione degli organi delle due società, rilevando solo il coinvolgimento di due dipendenti Fastweb corrotti ed infedeli: Bruno Zito e Giuseppe Crudele.

Due anni più tardi, la procura di Roma spiccava un ordine di arresto, oltre che ai membri della banda di Gennaro Mokbel (tra cui Zito e Crudele) anche per Scaglia, Mario Rossetti e Roberto Contin, nonché per Stefano Mazzitelli e altri due dirigenti di Telecom. Agli arresti seguì un’ampia esposizione mediatica con tanto di conferenza stampa della Direzione investigativa antimafia a cui partecipò anche l’allora capo Piero Grasso – oggi presidente del Senato – e il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo. Tutti i riflettori erano puntati sulle accuse a Scaglia, Fastweb e Telecom. La più grande truffa del secolo, fu definita.

Da quel momento Capaldo ebbe un’intensa attività mediatica: inviti a dibattiti, presentazione di libri, e pure un’intervista esclusiva al suo giornalista preferito Gianluigi Nuzzi (autore del libro Sua Santità. Le carte segrete su Bendetto XVI) con la quale invocava il sostegno dell’opinione pubblica all’attività investigativa. Si arrivò così all’arresto di uno dei più quotati manager italiani, Silvio Scaglia, tornato volontariamente dall’estero per spiegare la sua verità agli inquirenti, e alla detenzione in carcere (e sequestro di ogni bene) di alcuni dei migliori dirigenti del gruppo. Scaglia, Rossetti, Contin e gli altri manager di Telecom hanno fatto un anno di detenzione preventiva. Stefano Parisi, allora amministratore delegato di Fastweb, fu raggiunto da un avviso di garanzia e dopo poche settimane fu costretto ad autosospendersi per scongiurare il commissariamento dell’azienda.

La posizione di Parisi è stata archiviata ad aprile, mentre la settimana scorsa si è concluso il processo di primo grado a Silvio Scaglia e agli altri imputati: i vari delinquenti e dipendenti corrotti sono stati condannati a pene fino a 15 anni; i vertici delle aziende, su cui non si era trovato alcun riscontro delle accuse, sono stati assolti. Tempi ha incontrato Parisi (foto in alto). «C’è soddisfazione per la sentenza. Dimostra che esistono magistrati seri e indipendenti che studiano gli atti processuali, ancorché molto complessi come nella nostra vicenda, e riescono a giudicare i fatti con obiettività».
«Ciò però non può escludere una riflessione su quel che è avvenuto. È vero che oggi ci viene resa giustizia ma è anche vero che mi sono dovuto dimettere per non danneggiare un’azienda con 3.500 dipendenti e un milione e settecentomila utenti; ancora più grave è stata la violenza perpetrata ai danni di persone dalla grande qualità umana e professionale come Scaglia, Rossetti e Contin. Non solo hanno subìto l’onta del carcere ma hanno avuto i loro beni sequestrati per anni. Alla moglie di Rossetti è stata negata la possibilità di prelevare dai propri conti 1.000 euro al mese per far mangiare i suoi tre figli».

tempi-copa-silvio-scagliaAlla fine il sistema giudiziario dimostra di riuscire a funzionare.
No, non funziona. L’indagine poteva anche essere aperta, è giusto che si indaghi se ci sono dei sospetti fondati, ma non avrebbero mai dovuto essere arrestati né rinviati a giudizio. I fatti parlano chiaro. Non un solo elemento contro di loro e Fastweb è stato trovato, se non il comportamento di due dipendenti corrotti. Le due aziende sono state due volte vittime di questa situazione. La prima per mano della banda di Mokbel che ha abusato della loro buona fede per incassare l’Iva destinata allo Stato. E poi perché l’Agenzia delle entrate ha recuperato l’Iva sottratta ricorrendo alle casse di Fastweb e Telecom.

Quindi, secondo lei, al di là degli aspetti singoli si rilevano difetti sistemici?
È evidente come non abbiano funzionato bene né gli interrogatori di garanzia, né il Tribunale delle libertà, né il giudice dell’udienza preliminare. Alcuni interrogatori, cosiddetti di garanzia, sono stati una farsa. Di questi aspetti sono preoccupato non solo “come vittima” ma anche come dirigente di Confindustria, che vede nel cattivo funzionamento del sistema della giustizia civile e penale, un elemento chiave della paura a investire in Italia.

E quali conclusioni ne trae?
Io capisco le preoccupazioni di non delegittimare la magistratura di fronte a un’illegalità diffusa in Italia, ma la certezza del diritto in una democrazia è l’unica strada per la giustizia. E ciò richiede una separazione, una terzietà tra chi indaga e chi giudica. Inoltre, chi indaga non può non essere responsabilizzato. Capisco che ai pm, per esempio nella lotta contro la criminalità organizzata, si richiedano comportamenti talvolta eroici. Però, quando, come nel nostro caso, si rischia di distruggere un’azienda e si danneggiano persone oneste, una qualche forma di responsabilizzazione non autoreferenziale va assicurata. Il mio mestiere di manager non mi ha mai portato finora a occuparmi concretamente degli assetti necessari per una giustizia migliore. Le mie opinioni derivano dalla mia vicenda. Non so se l’esperienza americana sia riproducibile in Italia: negli Stati Uniti gli uomini della pubblica accusa possono arrivare a incriminare il Presidente, ma quando “sbagliano” sono – anche grazie al voto popolare – immediatamente “punibili”. La responsabilità personale del magistrato, negli Stati Uniti, non lede la sua indispensabile autonomia.

Lei dice «finora» perché considera che sia venuto il momento di una nuova iniziativa civile sulla giustizia?
Certamente, la riforma della Giustizia va sottratta al teatrino Berlusconi sì-Berlusconi no. La vicenda giustizia riguarda gli italiani, non una singola persona. Va affrontata con una visione d’insieme che contempli la necessità di combattere illegalità e criminalità organizzata ma, nello stesso tempo, sia in grado di proteggere cittadini e imprese.

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