Tutti lo coccolano, tutti lo criticano. Ma (alla fine) tutti lo vogliono. È Gabriele Albertini, l’uomo che ha fatto ripartire la “Grande Milano”. Agli Stati Generali del Comune la città della Madonnina si è ritrovata più viva che mai a discutere di artigianato, industria, finanza, commercio, moda, design, comunicazioni, grandi opere pubbliche, in una parola tutto il tessuto di attività sorrette da quel così milanese “lavoro italiano” cui lo scrittore (ma prima ingegnere elettronico) Carlo Emilio Gadda avrebbe dedicato una delle sue fatiche letterarie, se solo ne avesse avuto il tempo. Milano è tornata a far parlare di sé, ad essere centro operoso, in perenne trasformazione – il tratto distintivo della sua storia.
Una città da sempre in movimento
Dai concerti di Verdi alla Scala, dalle passeggiate in Galleria Vittorio Emanuele con sosta al Biffi o al Campari, alla Milano boheme e scapigliata di Boito e De Marchi o quella fascinata dal Demon de la vitesse di Marinetti, il cambiamento è sempre stato la cifra di una città perno dell’intero processo di modernizzazione del Paese, cui ha spesso indicato la strada. Passata dai comignoli delle tranquille casette sui Navigli alla frenesia della Borsa (attivissima già nel 1887), per diventare più tardi metropoli di “folla e cemento” teatro dei primi scioperi, quando Turati passeggiava per le sue vie a braccetto della Kuliscioff. Poi la Milano della Fiera Campionaria, che ha accompagnato lo sviluppo industriale italiano, dei primi telefoni pubblici a gettone, del primo semaforo, della prima autostrada d’Europa (la Milano-Laghi), antesignana del turismo col Touring Club Italiano. E ancora, dopo la guerra, centro capace di accogliere manodopera da tutta la Penisola per le sue Breda, Marelli, Falk, Pirelli e Alfa Romeo, segnata da quel mondo descritto in pagine indimenticabili da Giovanni Testori. Fino alla “Milano da bere” degli anni ’80, quella del Psi di Bettino Craxi. Dopo, il buio. La città sembrava aver perso il suo ruolo, i riflettori venivano puntati soltanto sulle stanze del Palazzo di Giustizia, mentre qualcuno “rigirava l’Italia come un calzino”. C’è chi le aveva addirittura preparato un elegante necrologio. Lo scorso luglio, con la benedizione del centrosinistra milanese “che conta” – Pietro Folena, responsabile Ds per il Nord, e Federico Ottolenghi, segretario provinciale Ds – la Fondazione Ambrosianeum parlava di una Milano “non governata e non gestita”, che “sopravvive al suo mito di capitale… Tangentopoli ha inferto un duro colpo alla credibilità delle istituzioni… è fallito il sogno riformatore della città metropolitana”.
Chi è vivo e chi è morto sotto la Madonnina
Oggi, i dati squadernati dagli uomini del sindaco Gabriele Albertini mostrano una realtà graziosamente diversa. Una Milano che ha recuperato progettualità e voglia di fare, come testimoniano i 1446 progetti realizzati dal Comune tra il 1997 e il 2000, per un importo complessivo di 4.247 miliardi – un incremento degli investimenti dell’87% rispetto ai quattro anni precedenti, a vantaggio soprattutto di urbanistica ed edilizia, ambiente ed energia, trasporti pubblici e strade (queste ultime due voci sfiorano il 50% del valore totale dell’investimento). Iniziative che hanno creato un circolo virtuoso per l’economia cittadina (l’incremento apportato alla produzione è di 17mila miliardi) con riflessi importanti sull’occupazione (137mila le possibilità di lavoro legate alla realizzazione delle nuove opere pubbliche). Oltre a un sensibile cambiamento in meglio del patrimonio urbano: nella consueta indagine sulla qualità della vita nelle città italiane, realizzata dal Sole 24 Ore, Milano è passata dal 40° posto del 1998, al 12° del 1999 fino al 10° del 2000, anno in cui il capoluogo lombardo ha mantenuto anche la prima posizione nella classifica per il tenore di vita. La Giunta Albertini ha riconvertito 4 milioni di metri quadri di aree dismesse (“Milano un cantiere da 5000 miliardi”, titolava di recente il Sole 24 Ore); ha avviato un esperimento pilota per il recupero delle aree periferiche (condotto nel quartiere dormitorio di Ponte Lambro dall’Assessore Paolo Del Debbio, con la consulenza di Renzo Piano) e la compilazione di un “Atlante dei bisogni delle periferie”; ha investito in cultura (a Palazzo Reale, al Castello Sforzesco, e con restauri, in sinergia coi privati: dal Cenacolo di Leonardo alla Biblioteca Ambrosiana); ha avviato un importante processo di privatizzazione (e la quotazione in Borsa dell’Aem permetterà al Comune di finanziare nuove iniziative); è tornata persino a far discutere pubblicamente – il che, nonostante le polemiche, appare un segnale di risveglio – della gestione urbana (ad esempio sull’illuminazione del Castello o su Piazza Cadorna, dove alcuni dei più bei nomi dell’architettura internazionale hanno lasciato il loro segno).
Il metodo culturale della squadra di Albertini
E proprio l’urbanistica offre forse il miglior esempio della strada che si è voluta seguire, un modello (condiviso da tutta la squadra del sindaco) che è “culturale” (lo ha sottolineato proprio l’Assessore all’Urbanistica Maurizio Lupi) prima ancora che tecnico amministrativo. Il nuovo regolamento edilizio in vigore dal novembre 1999, insieme al documento delle politiche urbanistiche approvato lo scorso giugno, tenta infatti di uscire dagli schemi rigidi e astratti di un Piano Regolatore che ha finito per ingabbiare la città, senza impedire obbrobri urbanistici e degrado per interi quartieri. Palazzo Marino abbandona il principio (ideologico) di un’iniziativa privata potenzialmente ostile e contraria all’interesse generale, per valutare la possibilità che (anche in campo urbanistico) l’interesse privato si ponga al servizio del pubblico. Al limite, si tratta di rinunciare alla coerenza di norme astratte a vantaggio di quelle proposte che arrivano dal vivo della società e rientrano nella strategia e negli obbiettivi dell’amministrazione – il che sembra anche in linea con la migliore tradizione del pragmatismo lombardo. E quale sia la vitalità dell’iniziativa autonoma della società nella “Grande Milano”, emerge dai dati della recente indagine curata dal Sole 24 Ore, che identifica la città come gateway (strada del successo) dell’economia italiana, col suo sviluppatissimo terziario avanzato (qui la sfida della new-economy è stata raccolta: Milano è la città più cablata d’Italia, 900 chilometri di cavi che saranno 2.400 fra 3 anni; ha il più alto numero di portali e di provider Internet mentre il numero di imprese del settore è aumentato del 15% in due anni), la leadership nelle esportazioni di made in Italy (oltre il 14% del totale nazionale, pari a una regione come il Veneto, per circa 50mila miliardi) e nell’editoria (700 editori presenti in città, per circa il 40% dell’offerta occupazionale del settore), una posizione importante nel settore televisivo (4mila addetti al settore su complessivi 20mila lavorano in città, dove sono attive anche Tele+, la tv criptata più diffusa, oltre a 20 canali locali) e numerose attività estese in aree meno consuete, come quelle del turismo e della cultura. Tutto questo significa un tasso di disoccupazione pari al 5% (contro il 12% della media nazionale), sempre più teso verso la meta della “piena occupazione” (stabilita dagli economisti al 3%). Ma significa soprattutto la convenienza di un metodo capace di valorizzare al meglio il poatrimonio locale, il genius loci, che si chiama principio di sussidiarietà. Nella “Grande Milano” funziona benissimo fin dal Medio Evo, quando l’allora gruppo dirigente cittadino favoriva le libere iniziative di “pubblica utilità” e assegnava alla politica il compito di sostenere i progetti e le opere delle formazioni sociali.