Un viaggio ad Auschwitz per capire che cos’è l’eutanasia. Un tour nel campo di concentramento più famigerato del mondo per riflettere sul vero significato della “buona morte”, quella che viene somministrata «con dignità» dai medici, diversa da quella distorta che veniva imposta dai nazisti sui tavoli operatori. Potrà sembrare un controsenso ma è per comprendere a fondo questa distinzione che il pioniere dell’eutanasia belga Wim Distelmans ha organizzato un seminario nel lager polacco dall’8 al 10 ottobre.
PIONIERE DELL’EUTANASIA. Wim Distelmans ha 62 anni ed è a capo della commissione che in Belgio controlla che l’eutanasia venga somministrata secondo legge e senza abusi. Il dottore ha ucciso centinaia, forse migliaia di persone nella sua lunga carriera di medico ed è la persona giusta da chiamare se si vuole porre fine alla propria vita in Belgio. Sul suo capo pendono attualmente due denunce per aver ucciso due pazienti senza rispettare i termini della legge, ma nessuno ha dubbi su come finiranno i processi. Anche quando ha somministrato la “buona morte” a un transessuale che non si sentiva più a suo agio con se stesso e a due fratelli perché stavano per diventare ciechi non sussistevano i requisiti legali. Ma la compassione non ha confini e come dichiarato da lui stesso al Der Spiegel prima di partire per Auschwitz, «chi stabilisce quando una sofferenza diventa insopportabile? Solo il paziente può deciderlo». Non la legge.
LA COMITIVA. L’8 ottobre Distelmans è partito in maglietta e giacca di pelle insieme ad altri 70 tra medici e specialisti belgi alla volta di Auschwitz, come un qualsiasi capo gita. Nel gruppo c’erano professionisti dell’eutanasia di lungo corso ma anche giornalisti o semplici curiosi. Tutti accomunati da una convinzione: il diritto alla “buona morte” è inalienabile e l’eutanasia somministrata ad Auschwitz è l’antitesi di questo diritto. Il viaggio, come prevedibile, non è passato inosservato: gli ebrei della città belga di Antwerp si sono offesi quando Distelmans ha parlato di Auschwitz come di un luogo «stimolante» e hanno accusato il medico di non avere rispetto e di essere un «killer di professione».
L’UOMO E LE MACCHINE. La comitiva atterra con l’aereo a Cracovia. Il sentimento che li pervade in questa visita è ben descritto dalle prime parole di una donna del gruppo: «La Polonia è un paese cattolico molto devoto. Forse non siamo i benvenuti qui». Dopo un giro turistico della città, in una sala congressi Distelmans tiene un piccolo comizio per preparare tutti alla visita del campo di concentramento dell’indomani: «Siamo la prima generazione che può artificialmente determinare sia l’inizio che la fine della vita. Le persone invecchiano di più rispetto a prima e le macchine permettono loro di vivere per sempre. Noi dobbiamo assumerci la responsabilità del fatto che non tutti vogliono seguire questa strada».
“BUONA MORTE”. Dopo l’inquadratura filosofica del momento storico, il medico aggiunge: «Siamo qui per riflettere sulla morte con dignità. Qualcuno ha protestato prima del viaggio ma Auschwitz è il posto migliore. Quando si tratta di eutanasia, dobbiamo anche ponderare sul suo opposto. In Belgio noi usiamo l’eutanasia nel suo significato originario [dal greco]: “Buona morte”. Questo è il punto. Chissà quante volte dovremo ancora spiegare che vogliamo l’opposto di quanto avvenuto ad Auschwitz».
«NON DOBBIAMO GIUDICARE». La platea applaude ma c’è ancora un altro passaggio che Distelmans vuole sottolineare per far comprendere il vero senso della “buona morte”: «Quando si dipende da qualcun altro, si può finire nell’umiliazione. Molti di noi sono medici e noi esercitiamo un potere sulle altre persone. Sappiamo che ci è stato insegnato di preservare la vita ma dobbiamo essere sicuri di non continuare a curare i pazienti contro la loro volontà, mentre loro vorrebbero morire. Noi non dobbiamo giudicare quando una vita è degna. Dobbiamo diventare i servitori dei nostri pazienti e quando si arriva alla fine, dobbiamo accettare il nostro fallimento come medici». E uccidere i pazienti perché «non abbiamo il diritto di porci al di sopra degli altri».
AMORE PER GLI ANIMALI. Il giorno seguente la visita al lager ha inizio. La comitiva passa sotto alla scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, visita le camere a gas, i forni, i tavolacci dove l’eutanasia veniva somministrata, vede le pile di scarpe, le montagne di occhiali da vista con lenti rotte, le urne piene di ceneri. Nessuno ha voglia di scherzare durante la visita. Quando è troppo, l’indignazione esce spontanea dalla bocca di uno psicologo attivo nel campo dell’eutanasia: «Per me la cosa peggiore è che molti nazisti erano amanti degli animali. Rudolf Hess ad esempio amava molto i cani». Una donna del gruppo, “stimolata” dalla visita e pensando all’ultima legge approvata dal governo del Belgio sull’eutanasia infantile, si lamenta: «Non è giusto che i bambini per porre fine alla loro vita debbano richiedere il consenso dei genitori».
«PATERNALISMO DEI MEDICI». I medici uccidono i pazienti con l’eutanasia, così come i nazisti. Dov’è la differenza? Per Distelmans, sta nel «paternalismo dei medici», che si arrogavano il diritto di uccidere anche chi non voleva. Non tutti sono radicali come lui. Lo psicologo, l’amante degli animali, pratica l’eutanasia ma siccome è cattolico, al contrario di Distelmans, prima di arrendersi alla volontà dei pazienti cerca di dissuaderli: «Sono così soli nel loro dolore. Cerco di dare loro qualcosa per cui valga la pena andare avanti: un compleanno, un matrimonio. Altrimenti la paura è troppa. Lo sai, Distelmans, che altrimenti la paura è troppa».
LIBERI DI NON MORIRE. Quest’ultima preoccupazione però non tocca il medico. Durante il viaggio riceve telefonate da parenti che richiedono l’eutanasia per i propri cari: ad alcuni risponde di sì, ad altri di no, a seconda delle condizioni del paziente. Chi insiste troppo lo infastidisce: «Abbiamo bisogno di essere liberi di morire, ma anche di essere liberi di non esercitare questo diritto».
«NON MERITA L’EUTANASIA». Finito il tour di Auschwitz, mentre tornano indietro, i medici si raccontano a vicenda esperienza e casi particolari. Colpisce soprattutto quello di un medico, a cui un ex membro delle SS naziste ha chiesto l’eutanasia. L’uomo è paralizzato a metà, soffre in modo insopportabile e vive seduto su un divano, sopra il quale campeggia un ritratto di Adolf Hitler. «Gli ho rifiutato l’eutanasia – racconta il medico – perché non penso che meriti una fine senza dolore, una morte gentile». Il suo vicino commenta: «Io non potrei avere alcuna empatia per le sue sofferenze come individuo perché quell’uomo non è come le altre persone normali. Se lo uccidessi, mi sentirei un assassino».
DIFFERENZA. Tutti annuiscono, mentre svaniscono in un batter d’occhi le tante belle parole sul paternalismo dei medici, che non hanno il diritto di giudicare quando una vita è degna e che devono rispettare la libertà del paziente, senza ergersi al di sopra, senza esercitare il terribile potere che ad Auschwitz i nazisti esercitavano, decidendo loro chi dovesse vivere e chi morire. Per un attimo, la differenza tra eutanasia giusta ed eutanasia sbagliata non sembra più così evidente.