Manicomio Gregoretti
Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Ce la facciamo ad andare oltre il paradosso e la strumentalizzazione politica? Una procura della Repubblica – quella di Catania –, a fronte delle denunce presentate contro il ministro dell’Interno in carica nel luglio 2019, sollecita l’archiviazione perché – così spiega nella richiesta – «non sussistono i presupposti del delitto di sequestro di persona né di nessun altro delitto». L’ufficio giudiziario titolare per legge dell’azione penale ritiene che la decisione del senatore Matteo Salvini di negare l’autorizzazione alla nave Gregoretti di entrare nel porto di Augusta, avendo a bordo 131 migranti raccolti in mare, non sia un reato: «L’avere prolungato per circa tre giorni la permanenza a bordo della nave Gregoretti dei migranti salvati in mare da unità militari italiane – garantendo comunque loro assistenza medica, viveri e beni di prima necessità, e consentendo l’immediato sbarco di coloro che presentavano seri problemi di salute e dei minorenni – e ferma restando l’intenzione ministeriale di assegnare il Pos in tempi brevi consentendo lo sbarco ed il trasferimento in “hotspot” per la fase di identificazione, non costituisce una illegittima “privazione” della libertà personale punibile ai sensi dell’art. 605 c.p.».
Un tribunale – quello di Catania, competente per i reati dei ministri commessi in quel distretto – disattende la richiesta e sollecita il Senato a concedere l’autorizzazione a procedere; ha il potere di farlo, per carità, ma in un sistema processuale accusatorio l’inversione dei ruoli appare non poco singolare.
La metà dei componenti della giunta per le autorizzazioni del Senato – quella espressione della maggioranza che sostiene l’attuale governo, che da mesi sostiene che Salvini debba essere giudicato per sequestro di persona – al momento del voto decide di non parteciparvi. Dell’altra metà, i senatori della Lega, convinti che l’allora ministro dell’Interno non abbia commesso alcun reato, votano perché sia processato.
Se non è un manicomio, somiglia a un reparto di psichiatria. Dal quale è possibile allontanarsi – profittando delle poche settimane libere fra un appuntamento elettorale e l’altro, concausa di non poche condotte psicotiche – provando a ribadire un paio di ovvietà.
Un’insospettabile linea di continuità
La prima. Si può passare rapidamente da un esecutivo a un altro, ma uno sguardo obiettivo mostra che in tema di immigrazione i governi cambiano e i problemi restano. E non solo: restano pure le scelte normative e di azione dei differenti dicasteri. Non è stato necessario attendere il Conte 1 con Salvini ministro dell’Interno per registrare un decremento degli sbarchi e una stretta alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiati. L’uno e altra datano già dal governo Gentiloni, con Marco Minniti al Viminale e Andrea Orlando come guardasigilli: il primo ha ridotto le partenze grazie ad accordi con i capi di alcune tribù libiche, il secondo ha proposto e ottenuto dal Parlamento l’eliminazione del grado di appello nella procedura giudiziaria di impugnativa contro il rigetto della domanda di protezione internazionale. Nessuno ha ipotizzato il processo a carico di Minniti per concorso esterno in associazione per delinquere, pur se taluno dei libici firmatari dell’accordo era nelle black list dei trafficanti di esseri umani e i migranti trattenuti in Libia erano (e sono) trattati da schiavi, né ha destato scandalo l’accelerazione della procedura voluta da Orlando.
E adesso, dopo il passaggio dalla coalizione gialloverde a quella giallorossa, il fatto che siano trascorsi sei mesi dalla formazione di quest’ultima e i decreti sicurezza votati dalla prima siano ancora lì, senza che nessuno abbia neanche avviato la discussione sulle modifiche, rappresenta l’ulteriore conferma di quale sia la rotta. Le stesse osservazioni che il capo dello Stato ha inviato ai presidenti delle Camere al momento della firma del secondo dei decreti sicurezza riguardano dettagli tecnici, non snodi centrali: nonostante questo, non si è profittato nemmeno del “milleproroghe” per riprenderli.
La seconda. Il tema non è se Salvini si sia reso responsabile di sequestro di persona; quanto scritto dalla procura di Catania nella richiesta di archiviazione è sufficiente ad archiviare se non il processo quanto meno la discussione sul punto: una persona che viene dapprima salvata in mare e poi per quattro giorni curata, rifocillata e vestita in attesa di conoscere lo Stato europeo di destinazione, si trova con tutta evidenza in una condizione differente da chi viene arbitrariamente rinchiuso in un luogo di privazione della libertà. Il tema è se la politica dell’immigrazione spetti ancora al governo e al Parlamento, ovvero se debba essere consegnata – unitamente alle politiche industriale, della sicurezza, agricola, eccetera – nelle mani dell’autorità giudiziaria.
Il caso Gregoretti ha provocato clamore, come era ovvio che fosse. Pochi però ricordano la vicenda di un’altra nave, la Open Arms, cui un provvedimento del 1° agosto 2019 del ministro dell’Interno, e degli altri ministri competenti, aveva vietato l’ingresso, il transito e la sosta «nel mare territoriale nazionale»: il ricorso presentato dalla ong al Tar del Lazio è stato accolto dal presidente di turno in via cautelare con un decreto monocratico del 14 agosto 2019, e ciò ha permesso l’approdo del natante. Per la necessaria conferma collegiale di un decreto di tale rilievo quel presidente ha convocato il Tar un mese dopo, il 9 settembre, quando da tempo la Open Arms aveva potuto raggiungere senza difficoltà le acque italiane. Anche per il caso Open Arms è stata avanzata una richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini per sequestro di persona.
Qualunque sia la nostra idea di immigrazione, dovrebbe preoccuparci che un singolo, per quanto autorevole, magistrato amministrativo, si sostituisca alla decisione di un intero governo, con un provvedimento scarsamente motivato, su una delle questioni cruciali dell’azione di un esecutivo, demandando peraltro l’obbligatoria disamina collegiale al momento in cui l’effetto si è realizzato in modo irreversibile.
L’interesse dello Stato
Nell’aula del Senato oggetto della discussione dovrebbe essere il confine tra le scelte proprie della discrezionalità politica, che chiamano in causa la relazione di fiducia fra l’elettore e l’eletto, e per questo non sono sindacabili dalla magistratura, e «i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni» da singoli esponenti del governo, che non vanno sottratti alla verifica giudiziaria.
La legge costituzionale n. 1/1989, che ha istituito i tribunali per i ministri, all’articolo 9 stabilisce che l’assemblea parlamentare «può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».
Il Parlamento non è un giudice di appello sui generis: è il luogo in cui, in virtù del mandato ricevuto dal popolo e del dettato costituzionale, si verifica se un ministro ha agito «a tutela di un interesse dello Stato», e per questo non è giudizialmente perseguibile.
È da ingenui auspicare, al netto di derive schizofreniche, la reciproca autonomia fra Parlamento, governo e autorità giudiziaria? Pur essa a tutela degli interessi dello Stato.
Foto Ansa
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