Mani Pulite, 20 anni dopo. «Processo politico che ha salvato la sinistra senza fare giustizia»
Tiziana Maiolo è stata deputata con Rifondazione Comunista nel ’92, e poi di nuovo dal ’94 con Forza Italia. All’inizio degli anni duemila è stata eletta consigliera comunale. Giornalista (ha lavorato con il Manifesto), a novembre 2011 ha pubblicato un libro, il primo di quelli dedicati all’anniversario del più grande terremoto politico-giudiziario, Mani Pulite, che ricorre il prossimo 17 febbraio. Con tempi.it ripercorre alcuni degli episodi avvenuti dietro le quinte di Tangentopoli.
Un anno fa, Francesco Saverio Borrelli ha detto: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite, non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente, per cadere in quello attuale». E, all’inizio di questo mese, Gherardo Colombo, intervistato dall’Espresso gli ha fatto eco: «Mani pulite sotto il profilo giudiziario è servita poco o nulla. Proponevo una sorta di condono dietro l’ammissione di responsabilità. Mi ero reso conto che di fronte all’enormità di quello che stava emergendo, sarebbe stata impossibile una soluzione attraverso il processo. Sotto il profilo culturale se qualcosa è cambiato, lo è stato in senso opposto. Si è rafforzata l’idea che l’interesse privato nell’esercizio di una funzione pubblica non è riprovevole». Cosa ne pensa?
Sono dichiarazioni molto gravi che dimostrano quella che è anche la tesi del mio libro: Tangentopoli fu un’operazione politica. Borrelli pensava di fare una rivoluzione: questo lo aggiungo io alla sua frase, perché riteneva secondo me di cambiare il mondo politico, e di far vincere la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto con le inchieste. E invece è arrivato Berlusconi: ecco cosa intende con «buttare all’aria il mondo precedente, per cadere in quello attuale». Quanto a Colombo, dico che dovrebbe ricordare che quando propose quel “condono”, in realtà voleva creare un “pentitificio”, cioè una fabbrica di pentiti politici. Voleva, anziché verificare colpevolezze o innocenze nei singoli reati, che i politici tutti si presentassero dal magistrato col capo cosparso di cenere per pentirsi, come se il magistrato fosse il parroco. I magistrati del pool hanno in realtà svolto un ruolo politico, religioso, sociologico. Tutto eccetto quello che dovrebbe fare una toga, cioè andare a caccia di un reato e capire le reali responsabilità. E hanno ottenuto un risultato politico, ma non “fatto giustizia”.
Però di recente anche Luciano Violante, all’Infedele, ha dato una lettura diversa di quegli anni. «La politica ha delegato alla magistratura la lotta a corruzione, mafia e terrorismo. Nel ’92-’94 non capimmo che era in gioco il cambio di un sistema politico. Pensavamo che “passassero” i nostri nemici. Invece passarono pezzi del sistema istituzionale». Crede che qualcosa stia cambiando, nel rapporto tra certa sinistra politica e le inchieste giudiziarie?
L’ammissione di Violante la vedo senz’altro un’autocritica, ma penso che a sinistra non sia ancora chiara la differenza tra reato e peccato, tra ruolo del magistrato e politica. Il contrasto di un fenomeno criminale non è delegabile al magistrato: Violante ha ragione su questo. Ma la politica non ha delegato nulla: la politica era debolissima, aveva lasciato un vuoto negli anni di Tangentopoli, e la magistratura se l’è preso. Ricordo bene il discorso di Craxi alla Camera. Ero a tre banchi di distanza da lui: disse che tutti sapevano dei finanziamenti illeciti, e invitò chi voleva scagliare la prima pietra a prendere la parola. Infatti non parlò nessuno allora, nemmeno la sinistra. Ma la sinistra allora scelse di farsi salvare dalla magistratura.
A proposito. Carlo De Benedetti, nel libro Eutanasia di un potere (di Marco Damilano), ha proprio ammesso che il Pci fu protetto durante Tangentopoli. Perché quest’ammissione da lui, e solo ora?
De Benedetti ha ragione a dire che il Pci è stato salvato, ma avrebbe dovuto farlo nel ’92 e poi non aggiunge che è stato salvato anche lui stesso. Infatti a Milano gli è stato consentito – a lui come a Romiti – di cavarsela presentando un memoriale, questo a differenza di altri imprenditori, che si suicidarono invece. È il caso di Raul Gardini: il suo avvocato aveva insistito inutilmente con il Pool perché venisse interrogato. Ottenne un rifiuto, perché i magistrati volevano assolutamente interrogare Gardini solo dopo un arresto. E lui si suicidò. Lo stesso Romano Prodi è stato salvato. Fu interrogato da Di Pietro, che gli urlò contro di portare delle prove, altrimenti lo avrebbe arrestato. E invece, a quel punto, Scalfaro tenne una riunione parlamentare in un’auletta a Montecitorio, a cui io stessa partecipai: parlò di “tintinnar di manette”, come avvertendo i magistrati che stavano esagerando. Questa è l’interpretazione che diedi non solo io ma anche altri. Sta di fatto che l’inchiesta su Prodi dopo quel momento si è fermata. Da questi due esempi, mi spingo a dire che Mani pulite è stata un’operazione chirurgica. Tagliò da una parte: ma solo in una certa direzione. Ho parlato con Maurizio Padra, il responsabile della Dc lombarda, che mi ha confermato, come aveva già fatto all’epoca anche ai magistrati, che anche la Fiat pagava le tangenti. Lo stesso Prada si occupava di dividerle in percentuali uguali tra i partiti in Lombardia: 30-30-30, tra Dc, Psi e Pci. Ma mentre per i socialisti e i democristiani i magistrati incriminarono anche i vertici Craxi e Forlani, che non potevano non sapere, con i comunisti ciò non avvenne. Occhetto non venne mai incriminato. E a Romiti, che era furbissimo, fu consentito di consegnare un memoriale. Quello che mi brucia ancora oggi di quella vicenda sono stati i 42 suicidi. Gardini a mio avviso si poteva salvare, sarebbe bastato fargli portare un memoriale.
Vent’anni dopo quei fatti, su cosa bisogna riflettere secondo lei?
Prima considerazione. È evidente che alcuni soggetti volessero un trampolino politico. Ad esempio il mio amico Gerardo D’Ambrosio e ovviamente Di Pietro. Seconda considerazione. La poca trasparenza del personaggio Di Pietro: nel mio libro racconto quello che mi ha detto Giuliano Urbani, ex onorevole liberale. Urbani ha ricordato di aver parlato all’epoca con “amici” della Cia, che molto chiaramente gli ammisero che “l’operazione Di Pietro” era voluta dagli Stati Uniti, contrari a un personaggio come Craxi fin dai tempi di Sigonella. Su questo aspetto mi limito a lasciare un interrogativo aperto, ma vorrei aggiungere che questa è la tesi anche di Cirino Pomicino, e di Francesco Cossiga. Terza considerazione, e punto interrogativo apertissimo, infine è il vero motivo per cui Di Pietro si è dimesso dalla magistratura. C’è una sentenza, la sentenza Maddalo del 29 gennaio 1997, del Tribunale di Brescia. Proscioglieva Silvio Berlusconi e altri, imputati di aver costretto a far dimettere Di Pietro: ma nella sentenza si legge in modo molto chiaro che Di Pietro è stato costretto a dimettersi, ma per ben altri motivi: «Esistevano specifici fatti che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare». Pagina 152 della sentenza Maddalo. Quali erano questi «specifici fatti»? C’erano tra gli altri prestiti di milioni di lire, avuti da Di Pietro da parte di imprenditori inquisiti, che poi il magistrato restituì. Ci sono centinaia di milioni ottenuti dagli stessi imprenditori inquisiti per un amico del magistrato con il vizio delle scommesse. E c’è la richiesta di posti di lavoro per il figlio Cristiano (sempre agli stessi imprenditori); e la richiesta di passare pratiche legali alla signora Di Pietro. «Tutti questi fatti – scriveva il magistrato Maddalo – rivestivano caratteri di dubbia correttezza se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede ad un magistrato (specie quando il magistrato è diventato nell’immaginario collettivo un eroe nazionale e il punto di riferimento dell’azione giudiziaria nella lotta alla corruzione) e altri erano decisamente idonei ad un’iniziativa sul piano disciplinare» concludono i giudici. Vent’anni dopo, sarebbe ora di chiarire anche questi aspetti.
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