La politica italiana è fatta di cognomi come “Vecchi” e “Fermi”, così ha ironizzato Stefano Bertezzaghi su Repubblica per la pausa di riflessione chiesta (ed ottenuta) da alcuni deputati sulla legge sul doppio cognome appena approdata in Aula a Montecitorio. Sullo stesso giornale la relatrice Michela Marzano (Pd) ha parlato di un “riflesso patriarcale” duro a morire anche a sinistra, con resistenza politiche al cambiamento con radici storiche e antropologiche.
Ma le cose stanno così? O viceversa si tenta di passare da un regime liberale e aperto come l’attuale a uno burocratico, limitativo e invasivo da parte dello Stato della libertà delle persone?
La normativa attuale prevede infatti che la moglie non perda affatto il suo cognome, ma lo aggiunga a quello del marito, fermo restando il suo diritto di utilizzare sempre e ovunque il solo suo cognome. Il figlio assume tradizionalmente il cognome del marito ma è possibile avanzare domanda al prefetto per aggiungere al cognome paterno quello materno o eventualmente, se c’è ragione per farlo, sostituirlo con quello materno. Più o meno le stesse regole valgono per il figlio naturale, il quale, se riconosciuto dal padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. Di questa facoltà si avvalgono in Italia poche migliaia di persone ogni anno, senza che la cosa abbia mai sollevato particolari tensioni o innescato movimenti di opinione per cambiare una tradizione consolidata da millenni.
Se dovesse viceversa essere approvata la riforma approdata in aula alla Camera cosa accadrebbe?
Alla nascita di un figlio ogni coppia italiana si troverebbe di fronte a un obbligo che la legge impone: trovare un accordo se chiamarlo con il cognome paterno, con quello materno o con tutti e due, altrimenti di imperio il figlio assumerà i due cognomi in ordine alfabetico. Quando il figlio a sua volta genererà un figlio, non potendo i cognomi moltiplicarsi a dismisura di generazione in generazione, avrà l’obbligo di decidere assieme alla moglie quale cognome scegliere fra i quattro o confermarne due dei quattro o in mancanza di accordo salvare i primi due in ordine alfabetico fra i quattro.
Vediamo allora alcune conseguenze di questa geniale riforma.
In un paese dove i rapporti familiari e sentimentali sfociano troppo spesso in tragedie alimentate da gelosie e risentimenti e dove persino la scelta del nome di un neonato può creare tensioni, lo Stato imporrebbe l’obbligo di una scelta che è comunque potenzialmente conflittuale. Questo potenziale conflitto, dove può prevalere la parte più ricca o più colta o più influente, si trasferisce poi alla successiva generazione con effetti paradossali: in caso di mancato accordo, con la regola dell’ordine alfabetico, rimarranno prevalentemente in campo i cognomi che iniziano con la prima lettera dell’alfabeto, mentre può scomparire ogni riferimento ai cognomi dei nonni paterni o materni, se i nipoti decidono di optare per un solo cognome o per il doppio cognome di uno soltanto degli sposi.
Quando poi si parla dell’Europa e in particolare della Spagna si dimentica di ricordare che in quel paese, in mancanza di accordo fra i coniugi, al figlio viene attribuito ex lege il cognome paterno seguito da quello materno.
Insomma, in un sistema italiano che ha duemila anni di storia, aperto alle possibilità, per chi è interessato, di aggiungere o cambiare cognome, per la solita battaglia ideologica alimentata da complessi di inferiorità verso sistemi diversi dal nostro, si tenta di imporre un’invasione di campo statalista che obbligherebbe le coppie a scegliere moltiplicando le tensioni o ingarbugliando in prospettiva la storia anagrafica di persone e famiglie. Per quanto ci riguarda, faremo il possibile al Senato perché questo non avvenga.