«L’incidente di Fukushima è stato terribile. Però che errore per l’Italia rinunciare al nucleare»

Di Daniele Ciacci
07 Marzo 2012
Silvio Bosetti, direttore della fondazione EnergyLab: «In Italia abbiamo il gas e non costruiamo i pozzi. Non vogliamo le pale eoliche, non vogliamo estrarre il carbone. Siamo destinati a dipendere dagli altri paesi».

​Prosegue l’inchiesta di tempi.it sulla situazione dell’energia atomica a un anno dal disastro della centrale di Fukushima. Con l’ingegnere Silvio Bosetti, direttore della fondazione EnergyLab, si discute del destino energetico dei grandi paesi occidentali dopo il rifiuto al nucleare.

Qual è l’attuale situazione del nucleare dopo Fukushima?
In Giappone le autorità hanno avviato un procedimento di controllo – mediante stress test – su tutti gli impianti energetici e di questi ne hanno bloccati molti. L’impatto di questa misura non è secondario sul sistema economico dell’isola e stanno maturando alcune problematiche. Detto questo, per i grandi paesi cui il fabbisogno energetico dipende in larga parte dal nucleare, sostituire questa produzione è una questione capitale. Le fonti di energia più usate in Europa e negli Stati Uniti sono sostanzialmente tre: il carbone, il gas naturale e il nucleare. È difficile sfuggire da questi combustibili nei prossimi quaranta, cinquant’anni. Oggi circa il 20 per cento dell’energia globale è prodotta dall’uranio. Se fermassimo le centrali atomiche adesso non riusciremmo a campare solo grazie alle energie rinnovabili. Queste fonti coprono soltanto il tre, quattro per cento dell’intero fabbisogno.

Svizzera, Germania e Italia hanno chiuso la porta all’energia atomica dopo il disastro in Giappone.
Sì, ma la situazione dei tre paesi è diversa. Noi abbiamo chiuso al nucleare ma non abbiamo centrali, gli altri hanno avanzato piani di dismissione delle centrali già esistenti fino al 2025 e al 2028. La Germania ha un progetto di lungo periodo per quanto riguarda la riconversione dell’energia in altre fonti: vuole che il fabbisogno energetico nazionale sia prodotto al 50 per cento da fonti rinnovabili. È una direzione impegnativa. Intanto ovvia alla progressiva carenza di nucleare attraverso il carbone. L’Italia non vuole neanche quello.

L’Italia, attraverso un referendum, ha abrogato l’impiego di tecnologie per la creazione di energia nucleare. Quanto ci ha perso?
Abbiamo rinunciato a una grande opportunità. In tempi di crisi occorre valutare attentamente queste scelte. Continuare sulla strada tracciata avrebbe implementato l’occupazione e migliorato il Pil, secondo i calcoli, di circa l’uno, il due per cento. E in un periodo da “elettroencefalogramma piatto” come questo non è cosa da poco. Il prezzo per kilowattora del nucleare è competitivo, come dimostra la Francia: il 75 per cento della sua energia è atomica.

Anche calcolando in anticipo i costi per un eventuale incidente e il conseguente smantellamento dell’impianto, l’energia nucleare rimane competitiva?
Sono due questioni diverse. Anzitutto, lo smantellamento è inevitabile. Di conseguenza, la rimozione e la bonifica dell’area adibita a centrale è sempre previsto nei costi d’investimento. L’incidenza dell’accantonamento sul costo dell’energia per kilowattora è esiguo. Altra cosa è assicurare l’investimento per interventi di emergenza. Anche questo aspetto è considerato.

Ieri il Sole24Ore ha dato la notizia di un congelamento, da parte della British Gas, di un progetto per un rigassificatore a Brindisi. Come mai in Italia è così difficile investire?
La precarietà del nostro paese non è data solo dal nucleare. Il mantenimento energetico dello Stato è sicuramente fondamentale e noi siamo uno dei pochissimi paesi al mondo che importa la maggior quantità di energia dall’estero. D’altra parte, non vogliamo fare impianti. Abbiamo il gas nell’Adriatico e non costruiamo i pozzi. Non vogliamo le pale eoliche, non vogliamo estrarre il carbone. Insomma, siamo destinati a dipendere da altri paesi. Ed è un danno sia per gli investimenti, sia per le occupazioni. La maggior parte dei paesi sono alla ricerca di un’autonomia nell’approvvigionamento energetico. Noi no.

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