
Libia, colletta di armi tra i cittadini per l’esercito. Escono fucili, granate, mine e un carro armato
Il nuovo governo della Libia liberata dal regime di Gheddafi ha chiesto a tutti i suoi cittadini di fare una colletta. Non di denaro per le casse dello Stato, niente “oro per la patria”, ma armi per l’esercito.
TONNELLATE DI ARMI. Come si è visto in occasione dell’uccisione dell’11 settembre dell’ambasciatore americano Chris Stevens a Bengasi, quando delle milizie islamiche hanno bloccato tutte le strade con camionette armate di mitragliatori e lanciarazzi, la rivoluzione ha lasciato nel paese in mano a comuni cittadini tonnellate e tonnellate di armi da fuoco, che fanno della Libia un paese fuori controllo ora impediscono al governo centrale di Tripoli di ristabilire l’ordine e il rispetto della legge.
«CITTADINI, CONSEGNATE LE ARMI». Dopo la richiesta da parte del governo alle bande irregolari di sciogliersi «perché in Libia ci può essere una sola autorità», proponendo loro di confluire nell’esercito regolare del paese, Tripoli ha chiesto ai cittadini libici di consegnare le armi alle forze dell’ordine. Secondo quanto riferito dal portavoce dell’esercito, «siamo rimasti sorpresi perché centinaia e centinaia di persone nella capitale sono venuti spontaneamente a consegnare armi leggere, medie e pesanti».
FUCILI, PISTOLE E CARRI ARMATI. Solo a Bengasi, la città da cui è partita l’offensiva dei ribelli, l’esercito ha raccolto 730 tra fucili e pistole, 200 granate, 200 mine anti uomo e anti carro, insieme a 20 mila munizioni circa. Per invogliare la gente a cedere le proprie armi, è stata improvvisata una tombola con in palio due macchine per due vincitori. Sono stati consegnati anche sei missili, un cittadino ha affermato di avere un carro armato ma, secondo un rapporto dell’agenzia di stampa Ap, non è chiaro quando lo restituirà. Le armi consegnate rappresentano una parte infinitesimale di quelle che circolano nel paese, ma secondo il portavoce dell’esercito Ali al-Sheikhi «è la prima operazione di questo tipo che facciamo ma non sarà l’ultima».
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