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Leader di piazza Tiananmen a tempi.it: «Il regime mi ha imprigionato perché non voglio dimenticare»
Quattro giugno 1989 significa un movimento di milioni di persone che per la prima volta in Cina chiede riforme democratiche (non la fine del regime), più libertà e meno corruzione; significa un uomo in piedi, solo, giacca nella mano destra e sacchetti nella sinistra che blocca una fila infinita di carri armati in mezzo a Chan’an Avenue; significa il massacro di duemila persone (per alcuni anche tremila); significa i tre giorni interi, 72 ore, che ci sono voluti per pulire le strade dal sangue delle persone morte o ferite; significa, in due parole, piazza Tiananmen. Ma per il regime, a 23 anni di distanza, continua a significare solo «caos» e «sommossa controrivoluzionaria». Per questo le persone sfuggite ai cingoli dei carri armati e ai colpi delle mitragliatrici, ma arrestate dalla polizia, sono ancora in prigione. Per questo a 23 anni di distanza Pechino impedisce che si pronuncino anche solo le parole piazza Tiananmen o 4 giugno.
«Dieci anni dopo il massacro del 4 giugno, le famiglie della gente uccisa e le persone che sono state ferite soffrono ancora; i prigionieri di coscienza sono ancora in prigione. (…) Tante persone conoscono verità che non possono esprimere e hanno lacrime che non possono asciugare. (…) Una sola candela non servirà a molto, ma se accendiamo un milione di candele la nostra volontà si infiammerà e legherà i nostri cuori e le nostre anime. E sarà una commemorazione silenziosa, una commemorazione dei sacrifici fatti 10 anni fa per la libertà, la dignità e la felicità». Queste frasi, contenute nell’articolo «Accendete una miriade di candele per commemorare insieme gli spiriti coraggiosi del 4 giugno», sono valse nel 1999 all’intellettuale per la democrazia Jiang Qisheng, tra i leader di piazza Tiananmen, quattro anni di prigione. «Il regime non vuole neanche che si ricordino le vittime» rivela a tempi.it.
Nato nel 1948 nel sud della Cina, Jiang voleva diventare un soldato modello, «secondo le esortazioni del presidente Mao». Per questo a 15 anni andava ad aiutare nottetempo i lavoratori che portavano fuori città carri pieni di letame. Quando dovevano affrontare una salita, spingeva il carro da dietro, ricoprendosi di liquame ed escrementi. E lo considerava un onore, perché «per quanto puzzasse il carro, non sarebbe mai puzzato come il mio meschino e puzzolente background borghese». Quando arrivò la Rivoluzione culturale Jiang fece di tutto per diventare una guardia rossa, ma nonostante il suo ardore fu bollato come uno «spirito di serpe». Capì che qualcosa in Mao, nel Partito e nel comunismo non funzionava quando venne a sapere che il Grande timoniere aveva epurato Liu Shaoqi, il suo braccio destro, e cinque anni dopo Lin Biao, il suo nuovo braccio destro. «Se sono stati “traditori fin dall’inizio” come dice – si chiedeva Jiang – come ha fatto il presidente Mao a non accorgersene subito?».
Così divenne critico verso il Partito e quando il movimento democratico esplose nel 1989, lui aiutò i leader di piazza Tiananmen a trattare con il governo comunista e per questo finì in prigione dal settembre 1989 al febbraio 1991. Jiang non è mai stato un eroe, come rivela a tempi.it: «Non ho mai avuto un carattere eroico da desiderare di essere arrestato per i miei pensieri, ma ho sempre creduto che “quando sarebbe stato il momento di andare in prigione, non mi sarei sottratto”. Cioè, se fosse arrivato il momento di andare in prigione per difendere i miei diritti, non mi sarei tirato indietro, ma non avrei mai dichiarato: “Più mi punite e meglio è”». E qual è il diritto che Jiang ha difeso a prezzo della sua libertà, per il quale ha scontato altri quattro anni di prigione, dal 1999 al 2003? Quello di ricordare le vittime di Tiananmen, per non permettere che di loro rimanga solo l’appellativo con cui li apostrofa il regime ancora oggi, “criminali”, il diritto a non dimenticare e a piangere tutti coloro che sono stati uccisi il 4 giugno.
Ma il regime comunista cinese non vuole concedere neanche la memoria ed è per questo che ha incarcerato Jiang nel 1999 per aver scritto un articolo. Lui, che si era laureato in aerodinamica e che avrebbe conseguito un dottorato in Filosofia se non avesse deciso di appoggiare gli studenti a Tiananmen, motivo per cui una volta uscito di prigione venne espulso senza motivo dall’università, sapeva a cosa andava incontro. Come testimonia quello che racconta nel suo libro uscito quest’anno “La mia vita nelle prigioni cinesi”: «Nel maggio del 1991 sono tornato a Changshu, a casa mia, dopo oltre un anno e mezzo di prigione. Mio fratello minore mi disse: “Sappiamo cosa è successo a Pechino nel 1989, sappiamo perfettamente che cosa hai fatto là. Ma io non voglio che tu soffra di nuovo”. Io risposi con franchezza: “Se ti ascolto e faccio quello che suggerisci tu, allora qualcun altro dovrà condurre le battaglie che io smetterò di fare. Ma se quella persona avrà un fratello minore buono come il mio, che lo avverte di non fare quelle battaglie, e anche lui lo ascolta, allora chi combatterà?”».
Nonostante una condanna ingiusta, i soprusi, le torture e tutto quanto ha dovuto passare in carcere prima di poter tornare un uomo libero, non rimpiange di aver partecipato nel 1989 alle proteste di piazza Tiananmen, di avere scritto quell’articolo per ricordarne le vittime e di avere firmato insieme a Liu Xiaobo, il premio nobel per la pace 2010 tuttora in carcere, il manifesto per la democrazia Charta 08: «Se avessi preso altre strade sarebbe stato più semplice – ammette a tempi.it – ma non avevo una reale alterativa. Attraverso quale altra via avrei potuto conoscere il significato della vita umana su questa terra in modo così confortante? Quali altri valori, quale posizione politica o quante Bmw avrebbero potuto pareggiare quella stima della dignità umana che non avevo e che l’esperienza della prigione e del lavoro in favore dei diritti umani mi hanno fatto conoscere?».
Oggi Jiang ha scontato la pena per aver «incitato le masse a sovvertire il regime nazionale», continua a lavorare per una svolta democratica in Cina e la polizia continua a tenerlo sotto stretta sorveglianza e a impedirgli di commemorare le vittime del 4 giugno. A tempi.it dichiara: «Sarebbe irragionevole pensare che ogni cinese, invece di aspettarsi che la democrazia venga calata dall’alto, cominci ad agire da vero cittadino, creando le basi per la transizione democratica in Cina. Ma qualcuno deve pur cominciare, correndo qualche rischio e cominciando a godere della libertà». Da dove si comincia? «Un buon punto di partenza potrebbe essere rifiutarsi di mentire e avere il coraggio di dire la verità. Quando mi trovavo in prigione, sia nel 1989 che nel 2000, le guardie ci obbligavano a recitare le regole della prigione, violando ogni legge cinese, che facevano passare tutti per criminali, anche se il processo non era ancora iniziato. Dovevamo recitare a memoria: “Io devo obbedire alle regole del sistema, rettificare con tutte le forze il mio pensiero, mantenere una posizione onesta, confessare i miei crimini, cercare di capire perché li ho commessi e denunciare attivamente i comportamenti criminali degli altri. Per ottenere un trattamento compassionevole devo rinunciare a tutti i miei peccati e diventare una persona nuova”. Quante falsità in quelle frasi, eppure nessuno si opponeva, anzi. Quanto mi sarebbe piaciuto se qualcuno l’avesse recitato con un po’ meno ardore, mangiandosi almeno le parole, senza cercare di accattivarsi le guardie dando l’impressione di essere più obbediente degli altri».
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