
Le femmine no, i disabili sì. La strana crociata britannica contro l’aborto selettivo

Maschio o femmina? Sarà una sorpresa. In Scozia 4 commissioni del servizio sanitario nazionale su 14 hanno deciso di non rivelare più ai genitori il sesso dei bambini ancora in grembo. La decisione è stata presa a fronte dei reiterati “abusi verbali” diretti da mamma e papà a professionisti che non erano in grado di stabilire se di figlia o figlio si trattasse il feto catturato dall’ecografia. Dagli insulti alla minaccia di azioni legali in caso si fossero sbagliati pare infatti che il passo sia diventato brevissimo: «Gli errori accadono. C’è stato un caso di una coppia a cui era stato detto di aspettare una bambina», racconta un’ostetrica al Sunday Post. Va da sé, tutto, dal corredino alle pareti della stanza, era stato stato scelto, preparato e colorato di rosa: peccato che alla fine fosse nato un maschietto. Un imprevisto da scongiurare: nell’era delle infinite possibilità di riproduzione, tutti vogliono sapere se il feto è sano e a che genere appartiene, perché ciò «consente ai genitori di pianificare il suo arrivo e cerare un legame con lui – ha spiegato al giornale Elizabeth Duff, consigliere della National Childbirth Trust -. Tuttavia, a causa di molti fattori come la chiarezza delle immagini e la posizione del bambino, l’ecografista non può garantire una identificazione accurata del genere».
DIETRO ALLE SCELTE DEGLI OSPEDALI SCOZZESI
Al di là dell’incapacità di madri e padri di oggi di sopportare o meno l’imprevisto, dietro alle dichiarazioni dei portavoce delle commissioni sanitarie di Orkney e Shetland («non fa parte della nostra politica la determinazione del sesso», «le ecografie non includono il genere»), di Forth Valley («non si informano i genitori del sesso del nascituro») e Grampian (che ha annunciato una modifica alla sua policy specificando che «il genere non viene determinato» a meno che sia riscontrata una patologia del feto in utero) ci sarebbe una ragione più profonda. Nel marzo 2017 il Nuffield Council on Bioethics, un think tank finanziato dal governo, ha pubblicato un rapporto in cui si affermava che alla diffusione dello screening prenatale non invasivo (Nipt – Non-Invasive Prenatal Test) sembrava corrispondere un aumento degli aborti selettivi.
L’ABUSO DELLO SCREENING PRENATALE
Il Nipt comporta infatti il prelievo di un campione di sangue dalla madre dalla nona settimana di gravidanza, alla ricerca del Dna del figlio, che sarà poi analizzato per valutare il rischio di condizioni genetiche. Tuttavia con questo esame si può anche stabilire il sesso del bambino: di qui il timore di molti politici britannici che le donne di alcune comunità culturali, in particolare modo quelle di origine asiatica, possano subire pressioni o essere costrette ad abortire se il nascituro è femmina. Tecnicamente infatti il test Nipt non può essere utilizzato dai medici del servizio sanitario nazionale per individuare il sesso del bambino, ma è possibile avere queste informazioni eseguendolo presso le cliniche private dietro un pagamento che varia dalle 150 alle 200 sterline. Per arginare il fenomeno alcuni politici hanno chiesto di vietare gli annunci pubblicitari in materia: nel sobborgo londinese di Slough, per esempio, popolato da una quota consistente di persone di origine sud-asiatica, imbattersi nei cartelloni che pubblicizzano esplicitamente l’utilizzo di questo screening è facilissimo.
LE INCHIESTE CHE INORRIDIRONO IL REGNO UNITO
Ora, tecnicamente l’aborto selettivo è illegale nel Regno Unito, ma come abbiamo visto nulla vieta ad una donna di effettuare privatamente lo screening né di abortire per qualsiasi altro motivo, purché accettato da due medici. La storia insegna: sette anni fa fece scalpore l’inchiesta del Daily Telegraph, che aveva scoperto che un terzo delle cliniche inglesi praticava aborti selettivi su base sessuale. «Tra il 2007 e il 2011», aveva dovuto poi ammettere il ministro della salute Earl Howe «i dati delle nascite variano sensibilmente a seconda della nazionalità della madre e del sesso del nascituro». Era stata aperta un’inchiesta. Finita in nulla: perseguire il reato di aborto selettivo e portare in tribunale i medici che lo praticano non è «nell’interesse pubblico» inglese, dichiarò allora la magistratura. Nel 2014 l’Independent aveva rincarato la dose e acceso le proteste delle femministe, pubblicando numeri che attestavano come mancassero all’appello del censimento nazionale circa 5 mila bambine. Persino Lord David Steel, promotore della legge sull’aborto, di fronte ai numeri pubblicati aveva dichiarato che «è davvero deplorevole, non era questo lo spirito della legge». Eppure, quando nel 2015 il deputato Tory Fiona Bruce ha proposto un emendamento all’Abortion Act del 1967 per esplicitare che abortire un bambino solo perché non si gradisce il suo sesso è proibito, il provvedimento legislativo, votato alla Camera dei Comuni, è stato bocciato da 292 parlamentari contro 201. Indignarsi per il femminicidio sì ma, per usare le parole del Congresso dei sindacati inglese, «costringere una donna a partorire solo perché non ci piacciono le ragioni per cui lei vorrebbe abortire sarebbe un significativo passo indietro».
IL COLPO DI SCENA
Lo scorso settembre, però, accade un colpo di scena: il Partito laburista britannico chiede che sia vietato comunicare alle donne in gravidanza il sesso del loro figlio attraverso l’esame del sangue precoce, per timore che la pratica porti all’aborto delle femmine. Tempi ne aveva parlato qui: «Il Nipt dovrebbe essere utilizzato per lo scopo previsto, cioè esaminare condizioni gravi come la sindrome di Down», ha tuonato Naz Shah, responsabile del partito per le donne e l’eguaglianza, «il governo deve affrontare questi abusi e adottare le opportune limitazioni». Ha ragione: in certe «comunità» culturali» dire a una futura mamma che il bambino in arrivo sarà femmina è pericoloso. Ma allora, ci chiediamo nuovamente, nella nostra «comunità culturale» non è altrettanto pericoloso, se non perfino di più, usare lo stesso esame medico per stabilire se il bambino in arrivo sarà Down? Nel Regno Unito il 90 per cento delle gravidanze di un bambino a cui viene diagnosticata la sindrome di down vengono interrotte, dati in linea col resto dell’Europa e Italia, dove a parità di nascite, di due bambini Down che nascevano fino a trent’anni fa ne nasce meno di uno. La notizia che arriva dalla Scozia è che quindi nella nostra comunità culturale presto non potremo più discriminare le donne in quanto tali, nemmeno quando sono “già e non ancora” tali. I disabili invece sì.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!