La Turchia si riposiziona con la “primavera araba” (e mette in crisi al Maliki)

Di Rodolfo Casadei
17 Gennaio 2012
Il fossato fra sunniti e sciiti continua ad allargarsi, come dimostrano i ripetuti, sanguinosi reciproci attentati. Intanto la Turchia appare sempre più risucchiata nel ruolo di grande protettore degli arabi sunniti di ideologia islamista, vittime di persecuzioni da parte di governi sciiti o quasi sciiti (gli alawiti di Siria) amici dell'Iran

I curdi che ospitano nel loro territorio e proteggono dall’arresto ordinato a Baghdad un politico iracheno sunnita ostile alla de-baathificazione della pubblica amministrazione; il governo turco che scongela i suoi rapporti coi curdi – iracheni – e invia il suo viceministro degli Esteri a Erbil a stringere un’alleanza di fatto col Krg, il governo del Kurdistan autonomo iracheno. Poche settimane dopo il ritiro delle truppe americane dall’Iraq il Medio Oriente è diventato un mondo capovolto, per quanto riguarda gli allineamenti geopolitici e le alleanze sul campo. Responsabile del ribaltamento attuale è principalmente la Turchia islamista moderata del primo ministro Recep Tayyip Erdogan e del presidente Gül, che fino a un anno fa intratteneva ottime relazioni con la Siria di Assad e l’Iran di Ahmadinejad e Khamenei, del quale il governo iracheno guidato da Nouri al-Maliki è un protetto.

Fino a un anno fa la politica di Erdogan si era caratterizzata per il progressivo distacco dagli storici rapporti privilegiati della Turchia con Stati Uniti, Nato e Israele e per l’avvicinamento all’Iran e ai governi e forze politiche antiamericane alleate e tributarie di Teheran: la Siria, Hamas palestinese ed Hezbollah libanese. Erdogan si era proposto come mediatore nella crisi del nucleare iraniano con modalità che equivalevano a un’iniziativa di soccorso al regime di Teheran, in pericolo di isolamento internazionale; aveva dichiarato pubblicamente che Hezbollah non poteva essere collegato all’assassinio del leader sunnita libanese Rafic Hariri, contrariamente a quanto asseriva l’inchiesta dell’Onu, e sostenuto la spedizione della Freedom Flotilla a Gaza, protestando vibratamente e congelando la cooperazione militare con Israele dopo l’incidente della Mavi Marmara che aveva causato la morte di 9 attivisti turchi. In quei giorni l’Iran e i suoi alleati godevano di grande considerazione presso l’opinione pubblica del mondo arabo per la loro irriducibile ostilità nei confronti di Israele e degli Usa, ed Erdogan aveva deciso che il suo progetto “neo-ottomano” doveva essere in sintonia coi sentimenti delle masse arabe.

Poi venne la “primavera araba” e il panorama cambiò completamente quando essa investì, a metà del marzo scorso, la Siria: l’Iran, che aveva incoraggiato le rivolte e le proteste nei paesi retti da governi sunniti, nel caso siriano assunse un atteggiamento completamente diverso, accusando i manifestanti di essere strumento di un complotto filo-americano. Da quel momento il gradimento del regime di Teheran è precipitato in tutti i paesi arabi e anche in Turchia, dove nell’autunno scorso le autorità hanno approvato l’installazione di un sistema di difesa missilistico della Nato che è chiaramente mirato a contenere la minaccia iraniana. Anche i rapporti con la Siria si sono degradati man mano che la repressione del governo alawita di Bashir el Assad causava un numero crescente di vittime all’interno dei ranghi dell’opposizione, animata principalmente da gruppi dell’islamismo sunnita, affini sia politicamente che confessionalmente a Erdogan e al suo partito Akp. In Turchia oggi trovano riparo gli oppositori del regime siriano, probabilmente anche quelli più direttamente coinvolti in forme di lotta armata.

A coronare la serie dei rapporti incrinati è arrivata la crisi fra Ankara e Baghdad: nel dicembre scorso il premier sciita al Maliki ha ordinato l’arresto di Tariq al Hashemi, il vicepresidente sunnita dell’Irak e leader del Partito islamista iracheno, accusandolo di essere il mandante di alcuni attentati che hanno causato decine di morti fra gli sciiti. Hashemi, che è amico personale di Erdogan, ha cercato e trovato riparo nella regione autonoma del Kurdistan nella città di Sulaymaniyah, feudo del Puk (uno dei due principali partiti curdi iracheni) e della famiglia Talabani, dalla quale proviene il presidente curdo dell’Iraq Jalal Talabani. Hashemi è ospite nella casa di famiglia dello stesso Jalal Talabani, e questo lo rende intoccabile da parte delle forze di sicurezza di Baghdad. Quanto sia stata astuta la mossa dei curdi lo si comprende dalle reazioni: la Turchia, che negli ultimi anni spesso è intervenuta con bombardamenti del territorio curdo-iracheno contro le basi del Pkk (separatisti curdi di Turchia) insediate sulle montagne al confine fra i due paesi, ha immediatamente preso le difese di Hashemi di fatto avviando un riavvicinamento col Krg e collocandosi come catalizzatore di un’intesa fra i curdi e i sunniti, che al tempo di Saddam Hussein compirono stragi efferate di curdi soprattutto in occasione dell’Operazione Anfal (1987-88) e che ancora oggi sono impegnati in sanguinose rivalità con gli stessi nelle città di Mosul e di Kirkuk.

Ad aggravare l’isolamento del governo di al Maliki hanno contribuito due mosse sbagliate: la richiesta della messa in stato di accusa come complice di atti di terrorismo nientemeno che del presidente Talabani da parte di un’importante deputato del partito di al Maliki, e le dichiarazioni rilasciate dallo stesso primo ministro venerdì alla televisione al Hurra: «Sfortunatamente la Turchia sta giocando un ruolo che potrebbe condurre a una catastrofe o alla guerra civile nella regione. Le loro dichiarazioni interferiscono negli affari interni iracheni (…) e questo non lo permettiamo assolutamente. Se loro possono parlare dei nostri problemi giudiziari, noi parleremo dei loro; e se loro possono parlare delle nostre contese, noi parleremo delle loro». La reazione di Ankara è stata immediata: domenica il viceministro degli Esteri Feridun Sinirlioglu si è recato ad Erbil, feudo del Pdk (l’altro grande partito curdo iracheno) e della famiglia Barzani e sede del governo autonomo curdo, e ha incontrato il primo ministro del Krg Masoud Barzani; lunedì l’ambasciatore iracheno in Turchia Abdul Kamil Tabikh è stato convocato alla sede del ministero degli Esteri per presentargli le proteste di Ankara per le dichiarazioni del primo ministro iracheno; quasi contemporaneamente a Baghdad le parti erano invertite: l’ambasciatore turco in Iraq ascoltava le accuse irachene di intromissione da parte dei turchi negli affari interni del paese.

Dove porterà questa escalation non è prevedibile: i curdi iracheni si dicono pronti a convocare e presiedere una conferenza di riconciliazione nazionale per risolvere il caso Hashemi e molte altre questioni pendenti in Iraq dopo l’uscita di scena degli americani, ma il fossato fra sunniti e sciiti continua ad allargarsi, come dimostrano i ripetuti, sanguinosi reciproci attentati. Intanto la Turchia appare sempre più risucchiata nel ruolo di grande protettore degli arabi sunniti di ideologia islamista, vittime di persecuzioni da parte di governi sciiti o quasi sciiti (gli alawiti di Siria) amici dell’Iran. I curdi, che sembravano schiacciati su tre lati dall’alleanza di fatto Turchia-Iran-al Maliki, ricominciano a respirare.

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