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La straordinaria storia di Armin Wegner. Giusto per gli armeni e per gli ebrei

La vicenda del paramedico scrittore tedesco che rischiò la pelle per fotografare lo sterminio armeno e per impedire, vent’anni dopo, la stessa sorte agli ebrei

Rodolfo Casadei
22/04/2015 - 3:00
Esteri
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wegner_erevan
Armin Wegner nel 1968 a Erevan davanti al fuoco perpetuo del monumento al genocidio degli armeni. L’immagine è tratta da “Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915” (Guerini)

Articolo tratto dal settimanale Tempi in edicola (qui la pagina degli abbonamenti) – A Erevan, sulla Collina delle Rondini dove sorgono il monumento e il museo che ricordano e documentano il genocidio subìto dagli armeni nel 1915 per mano del governo dei Giovani Turchi, si trovano anche un Muro della Memoria e un Giardino dei Giusti. Il primo contiene le ceneri o la terra tombale, il secondo alberi e targhe commemorative dei non armeni che hanno aiutato gli armeni prima, durante e dopo il genocidio. Che hanno cercato di salvarli dalla morte o hanno cercato di far valere i loro diritti, o semplicemente di far sapere al mondo la verità intorno alla loro morte. Il modello è quello dello Yad Vashem di Gerusalemme, il museo dell’Olocausto ebraico che sin dagli anni Sessanta si è dotato di un Giardino dei Giusti dove a ogni non ebreo che aveva salvato vite ebree durante la Seconda Guerra mondiale sono intestate una pianta e una targa col proprio nome. Poi, quando l’affollamento degli alberi sulla collina ha reso impossibili nuove piantumazioni, la funzione di ricordare i salvatori è stata demandata al Muro dell’Onore dove sono incisi i nomi di circa 24 mila Giusti. Quelli del Muro della Memoria a Erevan sono, per ora, solo 17. Ma c’è un nome – uno solo – che si trova in entrambi i luoghi: quello di Armin Theophil Wegner, militare paramedico, scrittore e attivista dei diritti umani tedesco. Nato in Westfalia e morto nel 1978 a Roma, dopo aver vissuto per quarant’anni in Italia.

Sembra incredibile, ma è la verità: c’è stato un uomo che ha visto coi suoi occhi il genocidio degli armeni cento anni fa e ha cercato di allertare il mondo per porre fine a quell’orrore; lo stesso uomo meno di venti anni dopo ha lucidamente intuito che la stessa tragedia stava per ripetersi ai danni di un’altra minoranza, quella degli ebrei, e si è rivolto direttamente al genocida in potenza per scongiurare il crimine. In entrambi i casi ha messo a repentaglio la sua vita per cercare di salvare altri esseri umani, in entrambi i casi ha fallito nel suo intento. Ma ha reso testimonianza alla grandezza morale dell’uomo e al senso della giustizia che non muore mai nel suo cuore, anche quando le maggioranze tacciono per indifferenza o per paura o si rendono complici.

«So che il mio è alto tradimento»
Armin Wegner è colui che ci ha lasciato il maggior numero di testimonianze visive del genocidio armeno, con decine di drammatiche foto in bianco e nero realizzate in condizioni proibitive e trasportate in Europa in modo rocambolesco; e allo stesso tempo è l’unico tedesco che ha osato scrivere una lettera aperta al Führer all’indomani della vittoria del partito nazista alle elezioni del 1933, scongiurandolo di rinunciare alla persecuzione contro gli ebrei. Pagò il suo coraggio con la prigione e la tortura, quindi con l’esilio volontario. Sulla sua tomba a Positano c’è la stessa scritta che papa Gregorio VII volle sulla sua: «Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio».

L’inquieto Wegner giunge in Anatolia al seguito dei servizi sanitari militari nell’aprile 1915. Si è già guadagnato la Croce di Ferro sul fronte polacco per l’abnegazione con cui soccorreva i feriti in pieno combattimento. Durante i permessi esce alla ricerca di notizie sui massacri di armeni di cui si vocifera. Viene assegnato al seguito del feldmaresciallo Von der Goltz, insieme al quale attraverserà Anatolia, Mesopotamia e Siria fra l’autunno del 1915 e il maggio del 1916. Il suo tragitto coincide con la via crucis degli armeni, deportati verso la morte. Raccoglie e scrive lettere, appelli agli ambasciatori, e soprattutto scatta fotografie con le ingombranti macchine di allora. Riuscirà a trafugare le lastre in Europa. «Negli ultimi tempi ho scattato molte fotografie», scrive. «Mi hanno raccontato che Djemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito, pena la morte, di scattare fotografie nei campi profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura. Nei campi di Meskenè e di Aleppo ho raccolto molte lettere di supplica che tengo nascoste nel mio zaino in attesa di consegnarle all’ambasciata americana a Costantinopoli. Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto».

Quell’ingiustizia mai vista prima
Una sua lettera viene intercettata e lui è arrestato dai tedeschi su richiesta del comando turco. Viene confinato nel ricovero degli ammalati di colera a Baghdad, esposto al contagio. Si ammala invece di tifo, e nel dicembre 1916 rientra in Germania. Comincia la sua crociata per gli armeni, pubblica La via senza ritorno. Un martirio in lettere, organizza mostre delle sue foto, tiene conferenze a Berlino, Vienna, Lipsia. Nel 1919 scrive un famoso articolo-appello indirizzato al presidente americano Harold Wilson, affinché sia concesso uno stato agli armeni. Lì descrive in modo toccante quello che ha visto coi suoi occhi quattro anni prima: «A nessun popolo della Terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli armeni. Quando il governo turco nella primavera del 1915 passò all’esecuzione del suo inconcepibile piano di sterminio ed eliminazione di due milioni di armeni dalla faccia della Terra, le mani dei loro fratelli europei di Francia, Inghilterra e Germania erano bagnate dal sangue che essi avevano versato a fiumi, e nessuno aveva impedito ai truci dittatori della Turchia di portare a termine le loro atroci torture (…). Così hanno cacciato un popolo intero, uomini, donne, vecchi, bambini, madri in attesa, lattanti, nel deserto arabico con l’unico obiettivo di farli morire di fame. I loro uomini sono stati massacrati in massa, gettati nei fiumi incatenati e legati gli uni agli altri con corde e catene, fatti rotolare giù dalle montagne con le membra legate, le loro donne e i bambini venduti sui pubblici mercati, vecchi e ragazzi spinti a bastonate mortali sulle strade ai lavori forzati. Non contenti di essersi così sporcate le mani per sempre con questi delitti, si continuò a dare la caccia a questo popolo, privato dei suoi capi e dei suoi portavoce, cacciandolo dalle città a ogni ora del giorno e della notte. Gli armeni furono strappati mezzi nudi dai letti, i villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca».

«Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere, picchiavano con randelli donne incinte o morenti fino a che cadevano sulla strada e morivano e la polvere sotto di loro si trasformava in melma sanguinolenta. Viaggiatori che percorrevano quelle strade distoglievano gli occhi terrorizzati da queste colonne di deportati sottoposti a diaboliche atrocità, per poi trovare, nelle locande dove alloggiavano, neonati nel letame dei cortili e vie ricoperte di mani mozzate di ragazzi che avevano osato alzarle implorando pietà dai loro aguzzini». «Morirono tutte le morti della terra, le morti di tutti i secoli. Ho visto persone impazzite che mangiavano i propri escrementi, donne che cuocevano il corpo dei loro bambini appena nati, ragazze che sezionavano il corpo ancora caldo delle loro madri per cercare nell’intestino dei morti l’oro ingoiato per timore dei rapaci gendarmi. Molti giacevano in caravanserragli diroccati in mezzo a mucchi di cadaveri semiputrefatti, indifferenti e aspettavano la morte».

Una lettera di fuoco al Führer
Gli armeni non ebbero una patria, ma Wegner continuò a perorare la loro causa e quella della pace in Europa. Nel 1927 visitò l’Unione Sovietica su invito delle autorità comuniste. Ne nacque il libro Cinque dita su di voi, che denunciava le storture del modello sovietico. Tuttavia in Germania fu accusato di bolscevismo. L’11 aprile 1933, poco più di un mese dopo la schiacciante vittoria elettorale del partito nazionalsocialista (43,9 per cento dei voti) e due settimane dopo il bando delle attività commerciali degli ebrei, Wegner consegna nelle mani di Martin Bormann, segretario di Hitler, una lettera aperta per il Führer che nessun giornale avrebbe osato pubblicare. Scrive: «Nelle loro migrazioni di secoli, cacciati dalla Spagna, rifiutati dalla Francia, la Germania da un millennio ha offerto ospitalità a questo grande infelice popolo. (…) La Germania, una Germania smembrata che lottava in mezzo a molti nemici, ubbidì alla dottrina della sua libertà quando offrì rifugio al perseguitato. Ed ora, ciò che è stato fatto in un millennio deve essere annullato per sempre?». «Abbiamo accettato in guerra il sacrificio di sangue di dodicimila ebrei, e ora possiamo – se abbiamo un minimo di equità nel cuore – togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e a un focolare? Quale sventura è questa per coloro che hanno amato più di se stessi il Paese che li ha accolti! Signor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino dei nostri fratelli ebrei. Si tratta del destino della Germania! In nome del popolo per il quale ho il diritto non meno che il dovere di parlare, così come qualsiasi altro che viene dal suo sangue, come tedesco a cui non è stato dato il dono della parola per rendersi complice col silenzio quando il suo cuore freme di sdegno, mi rivolgo a Lei: Fermate tutto questo! (…) La vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?». «Io contesto questa folle credenza che tutto il male del mondo provenga dagli ebrei, la contesto con il diritto, con le dimostrazioni, con la voce dei secoli e se io ora indirizzo a Lei queste parole ciò avviene perché non mi riesce di essere ascoltato per nessun’altra via. Non come amico degli ebrei ma come amico dei tedeschi».

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La lettera ovviamente non ebbe risposta. Ma poco tempo dopo Wegner viene arrestato dalla Polizia Segreta di Stato a Berlino, trascinato in un sotterraneo, gettato imbavagliato su un tavolo e frustato fino a perdere i sensi. Quindi passa di prigione in prigione, finché è rilasciato nella primavera del 1934. Lascia la Germania per l’Inghilterra e due anni dopo lo ritroviamo in Italia. Conosce e sposa quella che sarà la sua seconda moglie, l’artista Irene Kowaliska. Dalla prima, la scrittrice Leonore Landau, aveva divorziato nel 1939. Entrambe sono ebree tedesche. Nel 1965, in occasione del cinquantenario del genocidio, Wegner torna a occuparsi degli armeni. Scrive un saggio che sarà pubblicato negli Stati Uniti e in Europa, e la stampa riscopre la sua documentazione fotografica. Viene riscoperta anche la sua lettera a Hitler. Così nel 1967 è insignito del titolo di Giusto delle Nazioni dallo Yad Vashem (che si reca a visitare, e dove pianta un albero nel Giardino dei Giusti) e l’anno dopo dell’Ordine di San Gregorio a Erevan, dove gli viene anche intitolata una strada.

La croce di padre Arslan
Nel 1996, diciotto anni dopo la morte, le sue ceneri sono tumulate nel Muro della Memoria del memoriale della Collina delle Rondini. Poco prima aveva preso a circolare per l’Italia una mostra itinerante delle sue foto, a cura dell’armeno milanese Pietro Kuciukian. Ultimamente è stata esposta a Torino a cura dell’associazione di volontariato As.So. Fra le foto in bianco e nero degli armeni condotti alla morte e i pannelli coi testi delle lettere di Wegner si leggono passi commoventi: «Nella tenda di padre Arslan mi faccio raccontare le sue sofferenze. Delle 800 famiglie con le quali fuggì e delle migliaia di persone che ha dovuto seppellire nel deserto, fra le quali 23 preti e 1 vescovo. “Tu sei ancora un tedesco”, mi dice. “Sei un alleato dei Turchi, dunque siete stati anche voi a volerlo!”. Io abbasso gli occhi. Come posso rispondere alle sue accuse? Da una tasca il prete prende la sua croce di Cristo, avvolta in stracci e la ricopre con baci appassionati, mentre io, preso dalla commozione, non posso trattenermi dal portarla alle labbra, quella croce che è testimone di tante sofferenze e di tanti dolori umani».

@RodolfoCasadei

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