Proponiamo una recensione del volume Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato, scritto dall’esperta di politiche scolastiche Anna Monia Alfieri con gli economisti Marco Grumo e Maria Chiara Parola (Giappichelli Editore, Torino 2015, prefazione del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini). Maurizio Ormas, autore della recensione, è docente di Magistero sociale presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e di Teologia morale presso lo Studio teologico Sant’Antonio di Bologna. Tempi si è già occupato del libro in un articolo approfondito pubblicato nell’ottobre scorso.
Nonostante siano passati oltre quindici anni da quando la legge n. 62/2000 ha istituito il Servizio Nazionale di Istruzione formato da scuola pubblica statale e scuola paritaria, in Italia non ha ancora trovato modo di realizzarsi un autentico pluralismo nella scuola e tra le scuole, di cui la famiglia possa avvalersi per esercitare la sua libertà di scelta educativa.
Le ragioni di tutto questo vanno ricercate in un pregiudizio ideologico che considera tutto ciò che non è statale come privato e dunque come di parte, volto a realizzare solo interessi particolari, tollerabili forse ma pur sempre privati, e dunque incapaci di assolvere a quel compito di civilizzazione, nel senso di integrazione delle nuove generazioni nella società di tutti e nel mondo della cultura universale che competerebbe solo allo Stato in quanto sintesi dell’interesse pubblico. In buona sostanza, solo uno Stato con la “s” maiuscola potrebbe garantire quello spazio neutro all’interno del quale possa avvenire con successo la trasmissione di un sapere non di parte e l’educazione alla convivenza tra diversi.
Eppure, la nostra Costituzione non identifica pubblico con statale. Pubblici, infatti, non sono necessariamente solo i servizi offerti dallo Stato ma possono esserlo anche quelli prestati da enti pubblici o perfino da comunità di lavoratori o di utenti, come chiarito dall’art. 43 della Carta.
Chi come me ha insegnato per gran parte della sua vita nei licei di una grande città del Nord può testimoniare di non aver mai sperimentato questa neutralità, anzi, di aver quasi sempre riconosciuto nei colleghi che, pur negandolo, connotavano nei fatti l’insegnamento con le loro scelte e le loro appartenenze culturali i più validi dal punto di vista educativo, quelli che lasciavano nei ragazzi la memoria di un incontro umano e intellettuale, più o meno affascinante, più o meno condiviso nelle sue idealità ma pur sempre autentico.
Questo perché non esiste una cultura neutra o un’educazione alla convivenza civile neutra. Entrambe si alimentano sempre e inevitabilmente di esperienze personali, di metodologie differenti che si sono sedimentate nel tempo, di concezioni diverse dell’uomo e della storia.
Lo sa bene la nostra Costituzione quando afferma che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (art. 33); non vi è infatti una cultura ufficiale e, conseguentemente, una didattica stabilita cui attenersi. Anzi, il panorama all’interno del quale cogliere le tematiche relative alla scuola è quello del più ampio riconoscimento del diritto alla libertà di pensiero, alla sua manifestazione e alla cultura. E non solo di riconoscimento si tratta, ma anche di promozione, come recita l’art. 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». A tal fine essa detta «le norme generali sull’istruzione» e istituisce «scuole statali per tutti gli ordini e gradi».
Il testo dà per scontato dunque che le scuole non statali (si badi al fatto che non le chiama “private”) abbiano diritto al riconoscimento della parità con quelle statali, parità fatta di diritti e di doveri, in vista della prestazione anche da parte loro di un servizio pubblico di istruzione che sia a garanzia della piena libertà di insegnamento dell’arte e della scienza, assicurata dall’incipit di questo articolo.
La legge 62/2000 intendeva finalmente superare la concezione statalistica sopra accennata e, istituendo il servizio pubblico offerto dalle scuole paritarie oltre che da quelle statali, assicurare alle famiglie l’esercizio del pluralismo educativo.
Perché questa facoltà di scelta potesse attuarsi, era però indispensabile che il diritto all’istruzione fosse esercitato in condizioni economiche di uguaglianza tra gli alunni delle scuole statali e gli alunni delle scuole paritarie; il che non è accaduto dal momento che quanto il bilancio dello Stato ha stanziato nel corso degli anni a favore della scuola paritaria è stato sempre percentualmente molto inferiore al peso della paritaria stessa. I suoi alunni hanno dunque dovuto provvedere al finanziamento della scuola statale che non frequentavano con il concorso alla fiscalità generale e finanziare contemporaneamente la loro scuola col pagamento della retta, subendo in tal modo una palese discriminazione. Solo l’Italia e la Grecia, tra i ventotto paesi dell’Unione Europea, si trovano nella condizione di praticare tale discriminazione.
Dal momento inoltre che il bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione è assorbito al novanta per cento dalle spese correnti e per il personale e che gli enti locali si occupano solo dell’edilizia e degli arredi, ben poco rimane per la didattica, l’innovazione e il funzionamento delle scuole. Al progressivo ridimensionamento dei finanziamenti determinato dalla crisi della spesa sociale universale da parte di uno Stato soffocato dalla montagna del debito pubblico, le scuole suppliscono allora con i contributi volontari dei genitori che, previsti da un provvedimento legislativo del 1994, variano da scuola a scuola, aggirandosi su una cifra che oscilla tra i cinquanta e i centocinquanta euro all’anno.
Il volume Il diritto di apprendere tiene conto del fatto che i finanziamenti per l’istruzione – come anche quelli per la sanità e la previdenza del resto – sono destinati a diminuire ancora e che l’istruzione a costo zero non è più praticabile. Pertanto esso ha l’ambizione di cercare una nuova modalità di finanziamento della scuola, individuandola a partire dal costo standard per allievo finalmente reso pubblico dal Ministero dell’Economia e facendo di questo il criterio di spesa per studente nell’unico Sistema Nazionale di Istruzione.
Se, infatti, nelle sue istituzioni educative lo Stato attualmente spende 5.739,17 euro per alunno nell’infanzia, 6.634,15 nella primaria, 6.835,85 nella secondaria di primo grado e 6.914,31 nelle superiori, basterà partire da questi dati, eventualmente corretti, per rispondere meglio alle esigenze educative, per stabilire quanto ciascuno studente italiano ha diritto che lo Stato spenda per lui in una buona scuola statale o paritaria, dedotta quella quota di spesa che la sua famiglia o lui stesso dovranno contribuire a sostenere. Tutto ciò viene opportunamente raccontato nei primi due capitoli del libro.
Il III capitolo è invece dedicato, e in questo sta l’originalità e il pregio di questo studio, al come costruire il parametro di finanziamento sostenibile della scuola pubblica statale e paritaria. Per far questo prende a modello la sanità, «dove da anni le strutture sanitarie pubbliche e private (sia profit sia non profit) competono tra loro “ad armi pari” ricevendo i finanziamenti pubblici nella forma del pagamento di un “prezzo” (il cosiddetto DRG) uguale per tutti, e parametrato alla singola prestazione erogata dalla struttura» (p. 94).
Si tratta del costo che una struttura scolastica pubblica, statale o paritaria, dovrebbe sostenere qualora essa operasse secondo determinate condizioni di qualità, efficacia ed efficienza dei processi, prevedendo una qualche forma «di compartecipazione alla spesa da parte delle famiglie italiane che accedono al servizio pubblico scolastico, statale e paritario, tenendo comunque sempre conto della presenza di cittadini meno abbienti o indigenti: si potrebbe infatti prevedere il pagamento di un prezzo “base” da parte delle famiglie non bisognose (secondo l’ISEE) che accedono al servizio scolastico pubblico, statale o paritario, che potrebbe essere circa il 30% del costo standard annuo per allievo, mentre il 70% verrebbe sostenuto dal finanziamento pubblico. Tale integrazione, privata della spesa, potrebbe non essere prevista per i cittadini meno abbienti» (pp. 101s.). Si configura così un sistema scolastico meno costoso per il bilancio dello stato e insieme, finalmente, rispettoso del diritto all’istruzione di tutti i cittadini e delle scelte educative delle famiglie.
Nel IV capitolo si tenta una simulazione del parametro di finanziamento “costo standard di sostenibilità” da applicare alle scuole italiane, sulla base di un campione composto da sedici scuole paritarie di diverso grado, analizzate sotto il profilo dei processi didattici, del modello gestionale adottato e dei conti di bilancio; e sul campione di cinque scuole statali di cui sono stati analizzati i rispettivi bilanci annuali. Si tratta di un’ottantina di pagine in cui si dà ragione delle diverse possibili ipotesi di applicazione del costo standard a scuole di diverso ordine e grado e, con l’aiuto chiarificatore di grafici, didascalie e tabelle, si mostra la sua pratica attuabilità.
In una società in cui alcuni invocano sempre nuovi diritti e affermano che la loro espansione non toglie nulla a coloro che non vogliono avvalersene ma arricchisce chi ne è ancora privo, non si può evitare di osservare che il riconoscimento nei fatti del diritto costituzionale alla libertà di scelta nel campo dell’educazione e della cultura non obbliga nessuno ad avvalersene se non lo condivide come valore e non gli toglie nulla ma espande non poco l’esercizio dei diritti di chi lo aspetta da sempre.
Foto scuola da Shutterstock