La nuova “normalità” squassata da tre ragazzini che si lanciano nel vuoto

Di Caterina Giojelli
16 Settembre 2021
Milano, primo giorno di scuola, due quindicenni e una dodicenne si buttano dalla finestra. Si parla di coincidenza, sfide estreme online, stress da pandemia. Ma nulla ci mette tranquilli: se proteggiamo i figli, perché non riusciamo a salvarli?

Cosa c’è dietro quei titoli, “due suicidi e un tentato suicidio in poche ore a Milano”? Il primo giorno di scuola la ragazzina si è alzata e si è lanciata giù dalla finestra del settimo piano di casa sua, a Bollate, nel milanese. Erano da poco passate le sette, lei aveva 15 anni. Un’ora dopo, in zona Cenisio, una dodicenne che doveva iniziare la seconda media ha scavalcato la ringhiera del balcone e si era lanciata dal quarto piano. Nel pomeriggio, di ritorno dal suo primo giorno alle superiori, un quindicenne si è lanciato dal dodicesimo piano di un palazzo alla Comasina.

Il primo giorno di scuola è finito: solo la dodicenne è sopravvissuta a uno schianto da dieci metri, e versa in condizioni gravissime a Niguarda. Qualcuno parla di un biglietto di addio in una cameretta a Bollate e, alla Comasina, di frasi confuse di una famiglia cinese che non trova le parole in italiano per spiegare alla polizia cosa è accaduto. Per la morte del loro ragazzo è stata aperta una inchiesta a carico di ignoti per istigazione al suicidio. Non si conoscevano, i tre adolescenti, non c’è alcun collegamento, scrivono i giornali, tra i tre lanci nel vuoto, solo «un’assurda coincidenza».

Perché tre suicidi non ci lasciano tranquilli?

Una coincidenza: quasi imbarazza scriverlo. Perché chiunque abbia letto o ascoltato la notizia – non certo in apertura di giornali e tg -, si è chiesto cosa ci è sfuggito, cosa non abbiamo visto, cosa non abbiamo salvato insieme a questi ragazzi lanciati nel vuoto in tre orari e tre punti diversi di Milano il primo giorno di scuola.

Eppure eravamo preparati. Li avevamo protetti, con mascherine, raccomandazioni sull’igiene e il distanziamento, i banchi separati, gli ingressi scaglionati, avevamo fatto loro il vaccino, li avevamo forniti di green pass, materiali senza copertine di plastica. Avevamo fatto tutto quello che si poteva fare per proteggere i ragazzi dal Covid, per salvare loro libertà e il diritto di istruzione dall’emergenza, salvarli dalla dad, per «tornare alla normalità». Ma allora perché quei tre voli non ci lasciano tranquilli?

«Per alcuni il lockdown non è mai finito, ed è difficile trovare una via d’uscita», commenta preoccupato il capo della procura dei minori Ciro Cascone. «Ogni caso è differente, ma, in generale, stiamo assistendo a una profonda sofferenza dei giovani, con disagi già esistenti amplificati dalla pandemia». Con o senza lockdown, l’anno 2021 era iniziato con l’allarme suicidi tra i giovani lanciato dal Bambino Gesù: «Da ottobre ad oggi, quindi dopo la prima ondata Covid, abbiamo registrato un aumento dei ricoveri del 30 per cento circa. Fino ad ottobre avevamo il 70 per cento dei posti letto occupati (8 in tutto), oggi il 100 per cento», spiegava Stefano Vicari, primario dell’unità operativa complessa di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del nosocomio romano. «Nel 2011 abbiamo avuto 12 ricoveri per attività autolesionistica, a scopo suicidario e non, mentre nel 2020 oltre 300, quindi quasi uno al giorno. Mi comincio a chiedere quando tutta questa emergenza sarà finita quello che dovremo gestire. Sarà un’onda lunga».

«Sarà difficile farli uscire di casa»

Vicari aveva invitato i genitori a tenere gli occhi aperti: «C’è un altra fetta nel mondo di giovani che si chiudono sempre di più dentro casa, dentro la stanza, che trascorrono ore ai videogiochi senza nessun interesse sociale. Che vivono l’inutilità della relazione e confinano sempre più questo mondo ai tablet o agli strumenti tecnologici. Finita l’emergenza sarà molto difficile farli uscire di casa. È li che trovano rassicurazione. È lì che gli si rinforza il sintomo di una fobia sociale che spesso si accompagna a forme più o meno acute di depressione». Quest’estate Gianluigi Nuzzi denunciava la mancanza di dati aggiornati sul tema (l’ultimo monitoraggio Istat risale al 2017) e la rimozione di massa del tema da parte di una società impreparata a chi si toglie la vita: «Il tabù dei suicidi», «Non se ne parla. Non si fa prevenzione nelle scuole. Non si entra nel problema. Niente di niente», «Ma davvero siamo così fragili da non poterne parlare?».

Il 10 settembre, giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, tre giorni prima che ricominciasse la scuola, ci sono stati i convegni, le iniziative di sensibilizzazione, la presentazione dell’indagine dell’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF – Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze: da gennaio a luglio 2021 i giornali hanno dato notizia di almeno 413 suicidi e 348 tentativi, «circa un suicidio ogni 12 ore». Ancora il Bambin Gesù sui giovani: raddoppiati i comportamenti a rischio tra i 10 e i 18 anni e i ricoveri per suicidio e autolesionismo tra i 15 e i 24 anni. Ci siamo informati, eravamo preparati, casi di persone lanciate dal tetto o dal balcone sarebbero stati “prevedibili”.

La delega “facile” allo psicologo

Poi però arriva la notizia, pigra, tra i dispacci dal rientro in presenza milioni di studenti e l’aggiornamento sui contagiati Covid, di tre ragazzini di cui non si sa nulla – la procura mantiene il massimo riserbo, il Giorno riferisce di un biglietto nel caso del suicidio della Comasina alludendo a “sfide estreme” online – e con la notizia quel sottolineare a tambur battente che si tratta di «coincidenza». Una coincidenza che non ci lascia tranquilli.

Quando ad aprile Emmanuel Macron annunciò che lo Stato avrebbe pagato 10 visite dallo psicologo ai bimbi e adolescenti francesi dai 3 ai 17 anni depressi, in crisi, stressati dai lockdown per affrontare «un problema sanitario che si aggiunge all’epidemia» molti sollecitarono un provvedimento analogo in Italia. «Ma come si fa a stabilire a priori di cosa hanno bisogno i ragazzi? Di dieci sedute gratis?», commentò a Tempi Vittoria Maioli Sanese, psicologa della coppia e della famiglia, a proposito della risoluzione in una “medicalizzazione” del bisogno e della delega facile allo specialista per “gestire lo stress e gli effetti della pandemia” .

Educare al coraggio o alla protezione?

Ma come, prima li chiudiamo in casa e poi li mandiamo dallo psicologo esortandoli al “coraggio”? «Ma se non hai educato al coraggio, bensì hai educato alla protezione, alla sicurezza totale, come potrebbe emergere il coraggio?». Sanese ci parlò allora di un aspetto della formazione che nei mesi di chiusura e protezione dal Covid era stato assolutamente sacrificato insieme ai ragazzi, «quello della stima dell’umano», tradotta nella rivendicazione che il punto di riscossa, il supporto alla nostra fragilità, emersa al crollare di tante impalcature (scuola compresa) con il Covid, non potesse che arrivare dall’esterno.

E nella sostituzione molto forte della relazione con i digitale e le app che tanto ci stavano “semplificando” la vita. «Il punto serio della vicenda è se tutta la nostra vita trae dalla tecnologia, dalla strumentalità, dall’efficienza il criterio con cui vivere l’umano: se l’umano diventa una questione tecnica» e la tecnica «il criterio dei rapporti». Anche tra genitori, incapaci di trasmettere ai figli l’essenza dell’essere e della propria identità umana: «Quando l’uomo è veramente se stesso? Quando ama ed è amato. Questa definizione dell’uomo oggi è assente. Importa il “fare”, di conseguenza ci si sposta sul piano del “come fare”, delle leggi che consentano di fare tutto».

Il figlio “porta” il genitore

Cosa avrebbe dovuto dire allora un genitore a un figlio una volta uscito di casa per ricominciare veramente la scuola, la vita, senza perdersi nelle fragilità, nelle regole, nei mezzi tecnologici? Sanese rispose: «Non è importante la raccomandazione: bisogna guardare il figlio, bisogna verificare che il figlio esca di casa portandosi nel cuore e nella mente il genitore. Questo è il punto. Noi possiamo fare tutte le raccomandazioni del mondo, ma se la nostra raccomandazione rimane “all’esterno”, se rimane una indicazione di comportamento, lui non ci porterà dentro di sé. Se la cura del genitore è stata invece “Io sono accanto a te sempre perché tu cresci figlio, e quindi diventi te stesso ascoltando me”, se il genitore ha avuto la forza e il coraggio della sua presenza – ha espresso la certezza della sua presenza -, allora il figlio lo porterà con sé. Perché quello è un genitore che non ha avuto paura del Covid, non ha avuto paura della dad, non ha avuto paura della realtà cambiata».

Per questo la “coincidenza” di tre suicidi, per cause che non è importante indagare, uniche e misteriose, nel primo giorno di scuola, nella stessa città, non possono lasciare tranquilli una società che si definisca adulta, a cui è affidato il compito di dare senso alla realtà che esiste, che c’è, non a quella immaginata o precedente al Covid e alle sue chiusure. Traendone tanto coraggio da trasmettere a ciascun figlio. C’è un’altra e più profonda emergenza, qualcosa che abbiamo perso, perdendoci nostra volta dietro alla protezione da un virus, che non sappiamo affrontare?

Foto Ansa

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