Il Deserto dei Tartari

La novità antropologica dell’“operazione cercapersone” in Libano

Di Rodolfo Casadei
29 Settembre 2024
Il versante simbolico di una guerra non è meno importante di quello materiale. Non è più il nemico che mi colpisce, sono io stesso che mi colpisco, sono le mie protesi tecnologiche a insorgere contro di me
Un dispositivo fatto brillare dall’esercito libanese all’American University of Beirut Medical Center dopo l’esplosione in massa di cercapersone e walkie-talkie, 18 settembre 2024
Un dispositivo fatto brillare dall’esercito libanese all’American University of Beirut Medical Center dopo l’esplosione in massa di cercapersone e walkie-talkie, 18 settembre 2024 (foto Ansa)

L’operazione con cui gli israeliani hanno fatto esplodere migliaia di cercapersone e di walkie talkie in Libano e in Siria fra il 17 e il 18 settembre è stata descritta da alcuni come la prova decisiva che lo Stato di Israele conduce la sua guerra con metodi terroristici: l’attivazione delle cariche esplosive occultate negli apparati di comunicazione dei militanti di Hezbollah lontano dalle aree operative del conflitto ha comportato il coinvolgimento di molti civili che hanno subìto gravi danni o perso la vita. La denuncia fa cadere le braccia, anche se la si contestualizza nello scontro fra opposte propagande di guerra che è parte integrante di ogni conflitto reale che si combatta sul piano militare.

L’idea che le guerre possano essere condotte rispettando le regole di una sfida cavalleresca è il prodotto di ideologie che devono giustificare le violenze della lotta per il potere e nasconderle sotto uno strato di cosmesi. Da sempre le guerre incorporano la dimensione terroristica, nel senso del coinvolgimento dei civili non combattenti nella violenza bellica. Terrorizzare la popolazione generale a cui appartiene il nemico per causarne la resa e/o la sottomissione ha sempre fatto parte della tattica di guerra, ed era considerata linea di condotta più generosa del genocidio.

Quando il terrorismo è di Stato

Senza pretendere di risalire ai primi casi di questa tattica di sottomissione, si può fare l’esempio dell’Ilkhanato mongolo del XIII secolo che si estendeva dagli attuali Pakistan e Afghanistan fino alla metà orientale dell’Anatolia, passando attraverso l’attuale Iraq. Gli attentati contro la persona del khan o di altri alti livelli politico-militari dell’impero venivano puniti con la totale distruzione della località di cui erano originari i cospiratori e l’uccisione di tutti coloro che le abitavano, uomini, donne e bambini. In questo modo i padroni mongoli instillavano il terrore nelle popolazioni locali, che rinunciavano a qualunque resistenza.

Oggi viene descritta come terrorismo solo l’azione di agenti non statali che, troppo deboli per sperare di sconfiggere militarmente le forze che hanno dietro di sé un governo, concentrano le proprie risorse su azioni spettacolari che devono sconvolgere l’opinione pubblica e suscitare sentimenti di angoscia che spingono alla resa o almeno alla disponibilità a fare concessioni: come gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington. Si dimentica troppo facilmente che a punire, demoralizzare, far inferocire la popolazione civile contro il proprio governo erano finalizzati bombardamenti aerei della Seconda Guerra mondiale contro obiettivi in larga parte non militari come quello di Coventry compiuto dalla Germania nazista e come quello di Dresda opera degli anglo-americani, o contro le città italiane durante l’avanzata delle forze alleate lungo la penisola fra il 1943 e il 1945.

La nuova frontiera inaugurata dagli israeliani

La novità, per così dire, antropologica dell’operazione israeliana, la nuova frontiera polemologica che è stata inaugurata su larga scala (c’erano già stati esempi occasionali in passato) consiste nell’avere trasformato la violenza della componente terroristica della guerra – proviamo a sviluppare la metafora che al riguardo ha concepito Jean Baudrillard – da violenza virale a violenza di malattia autoimmune o di rigetto da trapianto. Cioè: non è più il nemico che mi colpisce, sono io stesso che mi colpisco, sono le mie protesi, i prolungamenti di me stesso a insorgere contro di me.

Abbondantemente i dispositivi della comunicazione creati applicando le più recenti tecnologie sono stati descritti come prolungamenti del corpo e della psiche umani, parti oramai integranti della personalità fisica, psicologica e morale dell’individuo. Privare durevolmente qualcuno del suo smartphone, tablet, iPad, eccetera equivale a mutilare costui, o a provocargli una menomazione cerebrale permanente. Se poi il dispositivo – come nel caso dei cercapersona e dei walkie-talkie in dotazione agli Hezbollah – esplode, ferisce o uccide il suo detentore, possiamo paragonare l’effetto all’insorgere improvviso e parossistico di una malattia autoimmune, o a una violenta crisi di rigetto di un organo trapiantato. In ogni caso, non è più l’alterità radicale del nemico con la sua negatività che mi attacca, ma è la mia stessa positività che mi aggredisce.

Tutte le forme del nemico

Byung-chul Han ha sintetizzato la simbologia del nemico che Baudrillard propone nei suoi L’agonia del potere e Lo spirito del terrorismo:

«Nella genealogia dell’ostilità tracciata da Baudrillard, il nemico appare al primo stadio come lupo. È un “nemico esterno, che attacca e contro il quale ci si difende costruendo fortificazioni ed erigendo muri”. Nello stadio successivo, il nemico assume la forma di un ratto. È il nemico che opera sotterraneamente e che si combatte per mezzo dell’igiene. Dopo l’ulteriore stadio dello scarafaggio, il nemico assume da ultimo una forma virale: “Il quarto stadio sono i virus, che si muovono praticamente nella quarta dimensione. Contro i virus è possibile difendersi con molta più difficoltà, poiché si trovano nel cuore del sistema”. Nasce un “nemico fantomatico, il quale invade per perfusione tutto il pianeta, filtra dappertutto come un virus, uscendo da tutti gli interstizi della potenza”. La violenza virale deriva da quelle singolarità che si introducono nel sistema come cellule dormienti e cercano di minarlo dall’interno. […] L’ostilità segue, anche nella forma virale, lo schema immunologico. Il virus nemico si introduce nel sistema, che funziona come un sistema immunitario e respinge l’intruso» (Byung-chul Han, La società della stanchezza, edizione 2020, pp. 19-21).

Lupi, topi, scarafaggi e virus

L’immagine del virus e della sua violenza virale rimanda al terrorismo islamista di al Qaeda e dell’Isis, entità che si insinuano nel corpo dell’Occidente e scatenano la malattia. L’immagine del nemico come lupo evoca il muro voluto da Sharon per isolare Israele dalla Cisgiordania o le recinzioni con sensori, filo spinato e armi azionabili da remoto intorno alla Striscia di Gaza, scavalcate o sfondate il 7 ottobre. L’immagine del nemico come ratto evoca i tunnel che Hamas ed Hezbollah hanno costruito in questi anni per muoversi sotto i piedi del nemico in attesa del momento favorevole per attaccare alla luce del sole.

Anche la guerra civile in Siria ha visto una pratica estensiva della costruzione di gallerie sotterranee soprattutto da parte dei ribelli antigovernativi per prendere alle spalle i militari o per farli saltare in aria con l’esplosivo (è famoso l’attentato con cui i ribelli del Fronte islamico distrussero lo storico Hotel Carlton di Aleppo, che era diventato una caserma). Nel caso di altre gallerie sotterranee scavate ad Aleppo dai ribelli per colpire obiettivi nevralgici la risposta dei governativi evoca “l’igiene” indicata da Baudrillard: con l’acqua del fiume che attraversa la città si è provveduto ad allagare i tunnel, purificandoli della presenza del nemico.

Gli scarafaggi indicano il nemico dentro casa, e possono rappresentare tanto le spie e le quinte colonne, quanto porzioni di popolazione considerata estranea e simpatizzante per il nemico: è stato il caso della minoranza tutsi in Ruanda al tempo della guerra fra governativi affiliati all’”hutu power” e ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) costituito da elementi tutsi riparati all’estero. I tutsi dell’interno venivano definiti, nella propaganda di guerra, “inyenzi”, che significa scarafaggi. Come tali furono poi trattati nell’aprile-luglio 1994.

Lo stadio della malattia autoimmune

L’operazione del Mossad del 17-18 settembre scorso non corrisponde a nessuna delle quattro forme del nemico indicate da Baudrillard, perché quel che è venuto meno è esattamente l’alterità: dal punto di vista simbolico, gli Hezbollah sono stati vittima di se stessi. Come succede nelle malattie autoimmuni, il loro stesso organismo li ha traditi.

Il versante simbolico non è meno importante di quello materiale: gli sciiti libanesi che hanno aderito al “partito di Dio” filoiraniano e alla sua ideologia in questi anni hanno sperimentato in misura esaltante la gratificazione dell’identità che prende forma nella contrapposizione al nemico, in questo caso l’”entità sionista”. Di volta in volta hanno indossato (e fatto indossare al nemico) le vesti del lupo, del ratto, dello scarafaggio e del virus. Ora però che la guerra assume il volto della malattia autoimmune la crisi d’identità è dietro l’angolo.

@RodolfoCasadei

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