«Una grande festa con caratteristiche inedite per piazza San Giovanni. Una festa che è segno di un messaggio di amore e di speranza che è stato dato al paese». Monsignor Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma, è visibilmente soddisfatto degli esiti del Family day. Tentiamo di metterlo in difficoltà rivolgendogli le obiezioni che sono state sollevate dopo l’enorme successo del 12 maggio.
Eccellenza, chi ci è stato ha avuto l’impressione che il Family day sia stato fatto proprio con entusiasmo dai movimenti e praticamente snobbato dalle parrocchie.
L’iniziativa, com’è noto, è partita dal Forum delle famiglie, un ambito tipicamente associativo. E la collaborazione fra movimenti e associazioni ha portato a un grande risultato. Io credo che sia stato dato il segno di una testimonianza non solo al paese, ma alla comunità cristiana, alle nostre comunità parrocchiali. Il Family day si è realizzato perché il senso di appartenenza nei movimenti e nelle associazioni è alquanto forte. Io credo che anche le comunità parrocchiali dovrebbero crescere sempre di più in questo senso di appartenenza, e tutti insieme – movimenti, associazioni, comunità parrocchiali – crescere sempre di più nel senso di appartenenza alla Chiesa e alla propria Chiesa particolare.
La sensazione è che il giudizio sul momento storico che stiamo vivendo non sia omogeneo dentro alla Chiesa cattolica nel suo insieme: per alcuni la priorità sta nelle questioni della bioetica, dei tentativi di omologazione fra la famiglia e altre forme di convivenza, della riduzione individualistica della sessualità e dell’affettività umane. Per altri le priorità continuano a essere di tipo socio-economico: la povertà, l’immigrazione, gli scambi commerciali col Terzo Mondo. Come vescovo avverte questa problematica?
Ci sono sensibilità diverse che dipendono dalla diversità delle esperienze di Chiesa che le persone fanno, ma gli aspetti che lei cita esprimono una complementarietà, non un’opposizione. Io personalmente sono convinto che nel futuro prossimo le grandi sfide che toccano la Chiesa siano maggiormente nell’ordine etico, perché stiamo assistendo a un profondo cambiamento culturale. Che per molti versi è determinato anche da una tendenza socio-economica. Certo, bisogna capire dove stanno le priorità. A me pare che in questo particolare momento storico siano nell’ordine dell’impegno etico per le questioni che toccano il concetto stesso della natura umana, della vita personale, della relazione fra le persone e della morte. Questo non significa dimenticare l’attenzione verso le condizioni di povertà e di emarginazione di tanta parte dell’umanità, però significa che nell’attenzione quotidiana a ciò non possiamo dimenticare le grandi sfide etiche che sono sul tappeto della storia.
Molti si chiedono oggi come si tradurrà il 12 maggio nella politica italiana. Io invece le chiedo: come pensa che si tradurrà nella Chiesa italiana? Come influirà?
Quell’evento si è realizzato proprio come conseguenza della nuova consapevolezza della Chiesa italiana. Non dimentichiamo l’impegno della Chiesa italiana nel provocare il paese circa il grave rischio della sperimentazione sull’embrione. Non dimentichiamo il convegno ecclesiale di Verona, dove si è detto che noi cristiani siamo chiamati a dare un messaggio di speranza. Io penso che i cristiani sono chiamati non solamente a dare un annuncio, ma questo annuncio deve poi rendersi visibile nei segni. Io credo che il Family day sia stato un segno concreto di questo genere, sia stata l’espressione della consapevolezza che da alcuni anni cresce nella comunità cattolica italiana: quella di essere non solo annunciatrice di speranza, ma capace di dare anche dei segni concreti.
Il Papa ha ribadito, anche durante il suo viaggio pastorale in Brasile, che la Chiesa non fa politica. Ma quando la Chiesa incoraggia una manifestazione che ha fra i suoi obiettivi il “no” a un progetto di legge del governo in carica, non fa forse politica?
Bisogna contestualizzare quello che papa Benedetto ha detto nel suo messaggio in Brasile. La Chiesa non è un soggetto politico, e questo il Papa lo ha esplicitamente scritto anche nella seconda parte della sua enciclica Deus caritas est. La Chiesa come tale non entra direttamente nelle strutture politiche, ha un altro compito, che è quello di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo, di essere testimone della speranza che Cristo ha portato nel mondo con la sua morte e resurrezione. Ma è inevitabile che il suo agire contribuisca alla costruzione della società in cui vive. A questo riguardo il Papa in Brasile ha dato indicazioni molto concrete sul modo in cui la Chiesa deve aiutare le società in cui è inserita a individuare la via migliore per il progresso, per il raggiungimento degli obiettivi basilari del vivere sociale. La storia è lì a testimoniare che noi cattolici siamo sempre stati, siamo ancora e saremo in futuro un concreto segno di coesione sociale e civile all’interno della società. La nostra presenza rende la società più coesa. D’altra parte la Chiesa ha anche il compito della vigilanza, i pastori hanno il compito di essere vigilanti su quello che avviene nella comunità cristiana e nella società. Questa vigilanza ci porta in alcuni momenti a esprimere pubblicamente le nostre riserve e le nostre preoccupazioni. Inevitabilmente quando appoggiano e incoraggiano una manifestazione come il Family day i vescovi sottopongono a chi ha la rappresentanza politica un problema fondamentale sul quale tutti, credenti e non credenti, sono chiamati a rispondere.
Certamente non è d’accordo con lei chi accusa la Chiesa di fomentare la contrapposizione nel paese. È un’accusa ammissibile?
Io credo sia una critica pretestuosa, che nasce dal non voler riconoscere il grande avvenimento che c’è stato. O meglio, è una critica da due distinte posizioni, che esprimono distinte preoccupazioni. La prima posizione è quella di chi ritiene che la Chiesa debba limitarsi a dare esclusivamente una testimonianza al mondo. La seconda è quella di chi teme che una presa di posizione forte da parte della Chiesa in Italia possa mettere a repentaglio la stabilità del quadro politico attuale. Rispetto alla prima posizione rispondo che la testimonianza è certamente l’elemento fondamentale, ma la testimonianza che il Signore ci chiede e che la Chiesa deve dare al mondo non è quella di essere una massa silenziosa. Che senso avrebbe rispondere a una convocazione in tribunale per dare testimonianza e poi non aprire bocca? Il concetto biblico di testimonianza ha un suo radicato fondamento nel concetto di testimonianza giuridica. Il che significa che io devo parlare, devo esprimermi; testimonianza non è restare silenziosi di fronte a quello che avviene, ma dare un giudizio. Riguardo alla seconda posizione, che esprime preoccupazioni partitiche, ritengo che le sue critiche vadano respinte al mittente. Non è possibile esaltare la Chiesa soltanto quando parla di pace e di fame nel mondo, e zittirla quando parla di valori etici. Uno Stato laico deve non solo ammettere, ma ricercare il confronto fra posizioni diverse. Uno Stato laico non solo si confronta, ma ricerca il confronto.
Un fenomeno molto curioso sono le lezioni di “cristianesimo autentico” da parte di commentatori come Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli, che hanno spiegato come la famiglia presentata in piazza San Giovanni fosse molto poco cristiana, e di politici del governo che tiravano le orecchie agli avversari dei Dico invitandoli a praticare “la carità cristiana”. Che ne pensa?
C’è sempre qualcuno che vuole insegnare non solo ai cristiani, ma anche ai vescovi e al Papa quel che devono fare. Il problema è che costoro non sono cristiani, e che partono dal presupposto di essere loro i depositari della verità. Certo, la verità non è in piazza, ma non è neanche in qualche giornale, certamente non è neanche nelle mani di qualcuno che ha la presunzione di essere nel vero e giudica bigotti o fautori di divisione coloro che non la pensano come lui. Io credo che il vero progresso e il vero concetto di democrazia si trovavano in piazza San Giovanni. E mi sento di aggiungere che anche la carità autentica era in quella piazza. Perché lì non si è criticato nessuno, ma si è voluto esprimere un’esigenza a cui tutti avrebbero potuto aderire.
Nelle ultime settimane, anche con l’approssimarsi del Family day, si sono moltiplicati i segnali di intolleranza nei confronti di vescovi e sacerdoti, sia con scritte minacciose che con titoli e vignette di contenuto diffamatorio sui giornali. Siete preoccupati?
Questo fa parte della nostra storia. Già san Paolo scriveva nella prima Lettera ai Corinzi: «Siamo diventati spettacolo al mondo». Noi cristiani siamo abituati a questo. Quello che mi preoccupa è un’altra cosa: come mai il cosiddetto pensiero laico non si è accorto che le vere espressioni di intolleranza sono queste. Mi piacerebbe sapere come mai alcune vignette profondamente calunniose possano essere state messe in pagina senza che i primi a vergognarsi fossero gli autori stessi. Se fossimo in un paese veramente democratico, ci sarebbe qualcuno che avrebbe bisogno di chiedere scusa. Se non altro per la grande stima e per l’affetto che il popolo italiano nutre per i suoi sacerdoti.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi