La preghiera del mattino
La democrazia non si difende “uccidendo un fascista”
Su Open si scrive: «Secondo Furio Colombo “si possono avere seri dubbi sulla loro colpevolezza. La strage è di stampo fascista, ma Mambro e Fioravanti, che hanno commesso, e ammesso, altri crimini efferati, non sono i responsabili dell’eccidio di Bologna. Ne sono certo”. Ma poi il giornalista non argomenta il motivo delle sue certezze. Preferendo affermazioni sibilline: “Non impugno la validità delle sentenze e non metto in discussione la buona fede dei magistrati. Dico solo che intorno a quel processo c’è ben altro”».
Queste parole di Furio Colombo, cioè di un assiduo frequentatore di quella Compagnia della forca composta da giornalisti squadristi e magistrati arcimilitanti che infesta da trenta anni l’Italia, liquidano alla radice il caso De Angelis. Agli isterici promotori della lotta antimeloniana dopo aver puntato sull’ex marito della mamma, sul sessismo contro la sorella, sulla gogna per il convivente a causa di una sua frase sul caldo, e sull’attacco al fratello dell’ex fidanzato, suggeriamo di concentrarsi sugli zii di Giorgia.
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Su Huffington Post Italia Marco Tarchi dice: «Ognuno ha la sua storia, anche in politica, e un’evoluzione non significa necessariamente abiura del proprio passato. Questo vale per la destra come per la sinistra, ma mi sembra che su questo punto l’indignazione scatti sempre e solo a senso unico: per molti, a sinistra, ancora oggi la frase “uccidere un fascista non è reato”, che ha coperto una grande quantità di violenze contro giovani missini negli anni Settanta, era tutt’altro che infondata. Certo, in pubblico la si deplora, ma quando la scandisce un corteo dei collettivi o dei centri sociali la si accoglie con indifferenza o con un sorrisetto. Se De Angelis avesse espresso un giudizio positivo su soggetti coinvolti in azioni terroristiche dovrebbe dimettersi, ma mi pare – non frequento Facebook – che abbia detto, certamente in termini sgangherati come è tipico dei social, di non credere alla colpevolezza di quei soggetti nella strage di Bologna. Non è la stessa cosa».
Sagge parole di un intellettuale che, dopo aver militato nella destra radicale, ha avviato un’articolata riflessione sui limiti di questa sua esperienza. Al di là delle considerazioni sulle posizioni emotive di Marcello De Angelis, l’accenno ai terribili esiti dell’”antifascismo militante” serve a ricordarci come la stagione del terrorismo dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli Ottanta fu ben più complessa di quel che spesso si racconta. La nostra democrazia si salvò per la convergenza nello spirito della Resistenza di moderati, riformisti e comunisti (non senza una qualche tenuta, pur con alcuni cedimenti di singoli, del Msi). Ma nella stagione citata ci si è confrontati con un periodo che non ha a che fare con l’unità antinazifascista della Seconda Guerra mondiale. Due dei principali antagonisti di Adolf Hitler, infatti, sovietici e americani, nella stagione del terrorismo italiano si combattevano, anche sul nostro suolo, su fronti contrapposti con spesso tragiche conseguenze.
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Su Linkiesta Iuri Maria Prado scrive: «Una sentenza, qualsiasi sentenza, e contro chiunque emessa, è il risultato di una ricognizione su un fatto: e dell’imputazione di questo fatto alla responsabilità di qualcuno. Ma non esiste nessun dovere di nessuno di considerare giusta la sentenza: esiste il dovere del potere pubblico di farla rispettare, e cioè il dovere di impedire che chi ne è destinatario vi si sottragga e il dovere di impedire ai terzi di vanificarne illecitamente gli effetti. Punto. Fine. Basta. Chiunque può farsi il giudizio che crede su qualunque sentenza, ed esprimerlo: e nessuno ha titolo per esprimere un giudizio con la pretesa di fare stato su quello altrui».
Prado, un intransigente liberale, spesso severo critico delle politiche meloniane, ci ricorda come non si debba mai dimenticare che la libertà va difesa a ogni costo.
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Su Dagospia si riprende un articolo di Paolo Comi per L’Unità dove si scrive: «Da “giornalismo d’inchiesta” a “dossieraggio” il passo è breve. Il procedimento della procura di Perugia, che vede indagato per “accesso abusivo a sistema telematico o banca dati” l’ex maresciallo della guardia di finanza Pasquale Striano, in servizio presso la Direzione nazionale antimafia, ha messo ancora una volta in evidenza il rapporto quanto mai opaco che esiste fra alcuni giornalisti e uomini delle istituzioni per veicolare all’esterno informazioni riservate che hanno il solo scopo di screditare l’avversario di turno. I fatti sono noti».
Di questi tempi ci è stato ricordato come le fondamenta della nostra Repubblica siano state poste dalla Resistenza. E ciò è sacrosanto. Ci è stato ricordato come una lotta ampiamente unitaria al terrorismo (peraltro va sottolineato: a “tutto” il terrorismo) abbia salvato l’Italia tra la fine dei Sessanta e l’inizio degli Ottanta. Il caso di dossieraggi in qualche modo legati alla Dna, deve ricordarci come si debba difendere la democrazia di ottanta anni fa, quella di quaranta anni fa, ma anche quella di “oggi” senza sciatterie istituzionali ben evidenti solo qualche mese fa, per esempio, nel caso Palamara e in diversi casi che hanno riguardato interventi politicizzati di settori della magistratura.
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