La cultura del “diritto alla salute” uccide la sanità. Ma risparmiare senza toccare l’efficienza è possibile
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da quando l’elenco delle prestazioni sanitarie soggette a «indicazioni di appropriatezza prescrittiva» si è allungato da 180 a 208, i camici bianchi minacciano scioperi temendo uno svilimento ulteriore della propria professione. La lista, contenuta nella bozza del decreto del ministero della Salute e che attende solo il parere del Consiglio Superiore di Sanità, mira a ridurre le prestazioni sanitarie in eccesso per abbattere gli sprechi. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha spiegato che dando una forte stretta alla cosiddetta “medicina difensiva”, si potrebbero risparmiare fino a 13 miliardi di euro.
Il diffondersi della cultura del “diritto alla salute” ha generato un cortocircuito: i medici, per evitare possibili denunce da parte dei pazienti, hanno moltiplicano le prescrizioni diagnostiche e, in alcuni casi, sono arrivati a non prendersi in carico pazienti troppo problematici. Gli ultimi dati snocciolati dal ministero nel marzo scorso attestano che il 77,9 per cento dei medici ha agito in maniera difensiva almeno una volta nell’ultimo mese (il 93,3 per cento è di età compresa fra i 32-42 anni). Il 58 per cento di loro ha deciso di chiedere un consulto ad altri colleghi, sebbene non fosse necessario. Il 51,5 ha prescritto farmaci nonostante li ritenesse inutili e il 24,4 ha invece fornito trattamenti non necessari. A escludere alcuni pazienti da determinate cure sono stati il 26,2 per cento dei medici intervistati, mentre il 14 per cento ha evitato procedure rischiose su pazienti che ne avrebbero potuto trarre giovamento. Il paradosso, quindi, è che il “diritto alla salute”, sostituito a quello di “essere curati”, ha danneggiato gli stessi pazienti, producendo l’abbandono terapeutico e moltiplicando i costi farmaceutici e diagnostici.
Mario Melazzini, assessore alle Attività produttive di Regione Lombardia e capo della commissione ricerca del ministero della Salute, spiega a Tempi che «gli esami “inutili” costano al nostro paese circa 13 miliardi l’anno: sono oltre 480 milioni le visite, 64 milioni in tutto gli esami diagnostici, con oltre la metà dei medici che ammette di prescriverne troppi». Ma può essere un elenco di 208 prestazioni soggette a «indicazioni di appropriatezza prescrittiva» a risolvere il problema? «Certamente no. Inoltre, tagli così pensati colpiscono l’efficienza del sistema e vanno a discapito dei più deboli, dei più poveri, senza per altro risolvere alla base il problema della medicina difensiva, che è più di tipo culturale e giuridico che amministrativo», spiega Stefano Carugo, cardiologo e consigliere regionale di Ncd in Regione Lombardia.
Un metodo controproducente
Ma andiamo con ordine. Raffaele Latocca, direttore dell’unità operativa di medicina del lavoro presso l’ospedale San Gerardo di Monza, riassume i contenuti del decreto precisando che si tratta di «un elenco di prestazioni soggette a restrizione che possono essere attivate solo in presenza di condizioni di erogabilità oggettive e di appropriatezza prescrittiva. Ad esempio, alcune prestazioni odontoiatriche sono erogabili solo a soggetti di età compresa fra gli 0 e i 14 anni o a soggetti in condizioni di vulnerabilità sanitaria e/o sociale. Alcuni esami radiologici – Tomografia assiale computerizza (Tac) e Risonanza magnetica (Rm) della colonna cervicale-dorsale-lombare – potranno essere erogati solo a determinate condizioni, come in patologie oncologiche accertate o sospette, in complicanze post-chirurgiche e post-traumatiche, in patologie del rachide – come le lombalgie – resistenti alla terapia e della durata di almeno quattro settimane. Anche alcuni esami di laboratorio, come il colesterolo ematico, potranno essere erogati pagando esclusivamente il ticket e solo come screening per le persone con età superiore ai 40 anni o con familiarità per dislipidemia o con alto rischio cardiovascolare».
Il pericolo di una tale normativa, secondo Federico Perno, direttore primario di virologia molecolare al Policlinico di Tor Vergata a Roma, «non sta tanto nell’obiettivo, ma nel metodo che può rivelarsi controproducente: porre delle condizioni per la prescrizione di analisi ed esami sulla base di princìpi teorici astratti rischia di non garantire l’accessibilità alle prestazioni sanitarie anche laddove siano necessarie». È dello stesso parere Carugo, che ricorda le conseguenze sui cittadini meno abbienti: «Nel decreto si legge, ad esempio, che l’esame per il controllo del colesterolo è prescrivibile tramite la mutua solo ogni due anni, anche se sono molti i casi in cui sono necessari accertamenti più frequenti. In tale eventualità il medico ha comunque il dovere di informare il paziente, che potrà curarsi privatamente solo se il suo reddito glielo permetterà».
Melazzini ricorda però che «la mancanza di risorse e gli sprechi esistenti sono due dati di fatto». Anche Latocca sottolinea che «il nostro sistema sanitario non regge più i costi, perché tende a garantire tutto a tutti e soprattutto nel passato non è stato fatto un controllo di qualità e appropriatezza sulle prestazioni ambulatoriali specialistiche erogate. Siamo probabilmente l’ultimo paese occidentale insieme all’Inghilterra ad avere un sistema a “copertura universalistica”, mentre in paesi come Francia, Spagna, Germania e negli Stati Uniti la copertura delle prestazioni ambulatoriali specialistiche è garantita da assicurazioni sociali e/o private attivate e pagate dai singoli individui. E in un periodo di povertà di risorse economiche come quello presente, se non si vuole passare a un sistema a copertura assicurativa, bisogna necessariamente fare uno sforzo di ottimizzazione evitando gli sprechi».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il modello lombardo
Una soluzione possibile per ridurre le prestazioni di “medicina difensiva”, secondo Perno, è quella di elaborare «algoritmi diagnostici per ogni patologia, in modo che i criteri di prescrizione siano più precisi» e permettere al medico, «in caso sia necessario, di prescrivere ulteriori esami giustificandoli». Melazzini ricorda poi che Regione Lombardia è stata in grado di ridurre gli sprechi senza colpire l’efficienza del sistema «favorendo lo sviluppo di reti di patologia, ovvero di percorsi diagnostico-terapeutici consolidati, che permettono la messa in rete degli specialisti e il trasferimento di conoscenza e innovazione». Un lavoro, continua l’assessore, «che nel tempo ha dato grandi risultati: pensiamo soltanto, per citare un dato, che in Lombardia si è generata nel tempo una stabilizzazione e una progressiva riduzione del tasso di ospedalizzazione, sceso dal valore di 177 per 1.000 residenti del 1997, al valore di 127 del 2010: un decremento di quasi il 30 per cento».
Più in generale, Latocca è convinto che sia «un errore ridurre lo spreco facendo un taglio trasversale della spesa sanitaria delle singole Regioni. In questo modo il governo mette in ginocchio soprattutto sistemi di qualità ed efficienza come quelli di Lombardia, Emilia Romagna e Toscana. Andando avanti così rischiamo di appiattire le eccellenze, gli ambiti di qualità nelle cure ospedaliere e sul territorio». Anche per questo il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha criticato il decreto, spiegando che la soluzione stava nell’introduzione dei “costi standard”, «che avrebbero risolto la questione alla base, lasciando alle Regioni incapaci l’onere di applicare nuove tasse per coprire gli eccessi di spesa». È dello stesso parere Carugo, perché «è solo ricavando un costo unico dalla media dei prezzi pagati per le singole prestazioni in ogni Regione, che si ottiene un risparmio maggiore, costringendo ciascun sistema a pagare i propri sprechi e quindi a migliorarsi».
Il rapporto col paziente
Ma ancor prima che amministrativa la via per ridurre costi e sprechi consiste nella rimozione delle cause della medicina difensiva che, come ricordava Carugo, sono di natura giuridica e culturale. La cultura della “salute come diritto” ha prodotto e si alimenta di una normativa che prevede, in caso di denuncia, l’onere della prova a carico del medico. Ciò significa che lo specialista deve pagare per dimostrare la sua innocenza, sebbene i dati attestino che il 90 per cento dei casi si concludono con l’assoluzione del medico. Al paziente, invece, il procedimento penale non costa nulla. Motivo per cui interi studi legali si sono specializzati nella difesa gratuita dei pazienti, obbligati a pagare solo in caso di vittoria.
Tutto ciò ha eroso la fiducia alla base del rapporto medico-paziente, favorendo scenari come quelli già descritti nel 1980 dai due americani, teorici del diritto, Samuel Warren e Louis Brandeis (quest’ultimo giudice della Corte Suprema), per cui «gradualmente lo scopo dell’espandersi dei diritti legali è diventato il diritto a essere lasciati soli». Per interrompere questo circolo vizioso, continua Perno, «è necessario che l’onere della prova sia a carico del paziente». Dal punto di vista culturale, prosegue Latocca, serve che i medici «tornino a investire più tempo con i malati in termini di educazione alla salute, evitando l’eccesso di prescrizioni inutili». Mentre «i pazienti devono utilizzare il sistema sanitario in modo corretto, evitando di “medicalizzare” tutti i loro disturbi o problemi, essendo più prudenti nell’effettuare contenziosi con i medici, spesso attivati senza motivi oggettivi di “malpractice”».
Altrimenti saranno loro a rimetterci, «sopratutto se poveri – spiega Carugo – o anziani. Di fronte ai tagli e alla riduzione delle prestazioni diagnostiche, i medici saranno costretti a farsi delle domande: a chi devo dare la precedenza? Al paziente più giovane o a quello più anziano? Al più forte o al più debole?».
Foto Ansa
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La salute è un dono non un diritto. L’atto medico è diventato un affare per tutti da politici, imprenditori, avvocati, magistrati, giornalisti ecc…
Quando si parla di salute si intende il diritto di avere tutti i mezzi per mantenerla o raggiungerla e comunque in ogni caso non è un dono perché questo presupporrebbe che ci sia un donatore che la elargisce in modo discrezionale, mentre qua salvo circostanze riconducibili a una causa concreta che la mettono in discussione, si tratta di un fattore assolutamente casuale, almeno fino a prova contraria!
Leon Kass presidente del consiglio di bioetica americano di Bush padre, dice che la medicina è l’arte che ha per scopo la salute. Ma la medicina ippocratica è stata abbandonata a favore di scopi che esulano la medicina. La perdita del fine(di curare e prevenire le malattie) ha significato(in occidente) la fine della medicina.
Per legge il sanitario risponde dell’obbligo di mezzi e non di fini. In pratica nel perseguire comunque la salute che ricordo essere “il completo stato di benessere fisico, psichico e sociale”, il sanitario deve garantire di aver messo in atto tutto quello che era nella sue capacità di fare in relazione ai mezzi a sua disposizione. Detto questo, è vero che oggi spesso il paziente è sempre più convinto erroneamente che la cura debba obbligatoriamente risolvere il suo problema e se questo non succede la colpa è del curante. Da qui inevitabilmente nasce la medicina difensiva e per evitare ció concordo con l’idea che l’unica soluzione è appunto quella dell’inversione dell’onore della prova a carico del paziente.