La Chiesa e la famiglia. Una svolta vecchia di 50 anni

Di Rodolfo Casadei
29 Settembre 2019
Certe spinte al «cambiamento radicale» sono le stesse che la Chiesa aveva già superato negli anni Settanta. Non ci serve qualcuno che tolleri le nostre ferite, ma un medico che le curi. Padre Perez-Soba spiega cosa c’è in ballo nello scontro sull’Istituto Giovanni Paolo II
La cupola della basilica di San Pietro riflessa in una pozzanghera

Articolo tratto dal numero di settembre 2019 di Tempi.

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Juan-José Perez-Soba, sacerdote spagnolo, dal 2012 è ordinario di Teologia pastorale del matrimonio e della famiglia del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia. A lui ci siamo rivolti per chiarire i punti di maggior dibattito in materia di teologia e pastorale della famiglia nella Chiesa cattolica, e che si intravedono sullo sfondo delle vicende che hanno interessato l’Istituto Giovanni Paolo II all’inizio dell’estate (vedi la nostra sintesi).

Ci ha colpito un passaggio dell’intervista di monsignor Livio Melina al quotidiano la Verità nella quale l’ex docente e preside emerito del Giovanni Paolo II fa il punto sul dibattito in corso nella Chiesa cattolica sui problemi della famiglia e del matrimonio nei seguenti termini: «La distinzione non è fra chi vede le ferite e chi vede solo fredde dottrine. La distinzione sta invece tra chi vede solo le ferite e, data l’impotenza dell’uomo di farcela da solo, cerca di giustificarlo, da una parte; e chi vede, insieme e prima delle ferite, la grande chiamata di Dio all’uomo e la capacità che l’uomo ha di essere redento da Dio. Da qui scaturiscono due modi di fare pastorale, che sono in contrasto radicale, perché il primo, vedendo solo le ferite insuperabili, cerca di tollerarle: misura l’uomo a partire dalla sua debolezza e dalla sua caduta; e l’altro modo che, vedendo la grande chiamata di Dio, cerca di fare maturare l’uomo perché sia capace di una risposta di amore». Lei è d’accordo? E quali devono essere le conseguenze concrete, a livello pastorale, della posizione espressa da Melina?

Quello che ha detto il professor Melina non è altro che la vera questione teologica di capire cosa sia lo sguardo pastorale. Cioè sapere come il Buon Pastore guarda gli uomini, ovvero come si legge nel Vangelo secondo Matteo «stanchi e sfiniti come pecore senza pastore» (Mt 9,36). Le guarda con l’intenzione propria della missione ricevuta dal Padre: «Che abbiano vita in abbondanza» (Gv 10,10). Non ignora le carenze umane, né le difficoltà gravi che gli uomini patiscono: semplicemente, non prende come misura della sua azione le forze umane tanto limitate, ma la Sua grazia.

La grazia è una fonte di vita che permette una vita differente. Nell’Istituto Giovanni Paolo II fino ad ora abbiamo lavorato molto su questa questione nella prospettiva del buon samaritano, cioè di colui che riconosce il ferito e il cui desiderio è che guarisca totalmente. Non c’è vera azione pastorale se essa non desidera curare le ferite che impediscono di camminare. È una posizione molto diversa dalla tolleranza che permette il male perché lo considera da un punto di vista giuridico. Dopotutto, nella parabola quelli che esercitano la tolleranza sono il sacerdote e il levita, che lasciano che tutto rimanga come prima, perché poco gliene importa.

Secondo la visione che abbiamo sviluppato fino a questo momento nell’Istituto, occorre vedere i casi di fragilità dal punto di vista del medico che può curarli. È importante conoscere bene la ragione della fragilità, dell’infermità che patiscono, altrimenti non la si può curare. Non è una questione meramente giuridica, per cui se si cambiasse la legge smetterebbero di esserci problemi. Se accettassimo questa impostazione, la difficoltà verrebbe da una legge troppo dura che gli uomini non possono vivere e che dovrebbe essere interpretata benevolmente e non essere applicata a coloro le cui forze non bastano per adempierla. Questa visione ignora del tutto quella del Buon Pastore che non limita la sua azione a causa delle debolezze umane, ma sempre cerca la perfezione come dice Amoris laetitia: «Perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo» (n. 160). È una citazione da Giovanni Paolo II che mostra che sarebbe una mancanza di carità pastorale confinare questa perfezione a una élite di privilegiati, ritenendo che Dio non dà la carità agli altri perché sono troppo deboli.

Presso l’Istituto abbiamo tenuto un corso che si chiamava “Portare il vino migliore”, nel quale dimostravamo con realtà pastorali presenti nella Chiesa come, nello stesso modo di quanto avvenuto alla nozze di Cana, le diverse fragilità umane sono occasione di sovrabbondanza della grazia di Dio: che è possibile la fedeltà nella separazione, l’adozione nell’abbandono, la fecondità nell’infertilità e l’educazione nella fragilità. Al contrario, non è pastorale nascondere il fatto che non c’è più vino, o pensare che la risposta adeguata sia annacquare il vino perché tutti abbiano a disposizione il vino peggiore.

Questo appare espresso esplicitamente in Amoris laetitia che al numero 297 dice, citando la Relatio synodi (2014, 25): «“In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro”, sempre possibile con la forza dello Spirito Santo».

Quanto è attuale la dottrina secondo cui per ricevere i sacramenti occorre essere in Grazia di Dio? Nella società odierna dove anche i cattolici sembrano essere assorbiti da una cultura dominante che incoraggia rapporti affettivi non permanenti, senza assunzione di responsabilità definitive, senza il “per sempre” delle promesse matrimoniali, moltissime persone rischiano di restare permanentemente escluse dall’eucarestia. Le convivenze senza matrimonio e un alto numero di divorzi e nuovi legami sono una realtà crescente anche fra i cattolici: che posizione dovrebbe assumere la Chiesa?

Lei si riferisce senza dubbio alla posizione che la Chiesa dovrebbe assumere per quanto riguarda l’eucarestia. È logico che in una società dove la cultura dominante non è cristiana, dove esiste una pressione molto grande per vivere come se Dio non esistesse, accada che molti battezzati non vivano in acordo con le esigenze del Vangelo. È un problema pastorale che la Chiesa ha vissuto in molte occasioni, allorché le persone si sono separate in forma drammatica dalla possibilità di ricevere i sacramenti.

Il modo di reagire non consiste nel facilitare che li ricevano in qualsiasi maniera. Sarebbe come somministrare medicine indiscriminatamente senza preoccuparsi degli effetti che causano a chi le riceve: un medicinale somministrato male può uccidere il malato. San Paolo lo segnala con molta forza alla comunità di Corinto: «Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore» (1 Cor 11,27). La Chiesa accoglie queste parole responsabilmente e considera fine dell’azione pastorale far sì che le persone possano partecipare all’eucarestia degnamente. Invece è contrario a una buona pratica pastorale l’accesso all’eucarestia senza riconoscere il corpo di Cristo, poiché, come dice l’Apostolo, chi fa questo «mangia e beve la sua condanna» (1 Cor 11,28). È stata una pratica abusiva quella di facilitare l’accesso all’eucarestia senza previa riconciliazione con Dio, essa ha fatto sì che in alcuni luoghi si sia oscurato il significato stesso della comunione sacramentale.

La ragione di questo sta indubbiamente in un emotivismo che l’esortazione Amoris laetitia (n. 145) critica con molta forza: «Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno». Vivere di quello che si sente è ciò che rende impossibile il “per sempre”, perché non possiamo essere sicuri di quello che sentiremo domani. Questa è la radice principale delle convivenze senza matrimonio, basate sul sentire senza promettere. Così come la causa principale dei divorzi fra coloro che ignorano la realtà del vincolo che hanno contratto è semplicemente che non sentono più quello che sentivano all’inizio. Non possiamo cadere nel «tremendo inganno». Invece ciò a cui invita il papa Francesco nella sua esortazione (n. 211) è che «la pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri»: è il contrario dell’assenza del “per sempre”.

La Chiesa ha imparato questo “per sempre” dalla pedagogia divina che nasce dall’Alleanza di Dio con noi che è indissolubile, poiché «se non siamo fedeli, Egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Tim 2,13). La verità è che nella vita cristiana la centralità dell’alleanza è la chiave per comprenderla e per poterla vivere. Uno degli ambiti dove questo si deve manifestare è il matrimonio, come dice il Concilio Vaticano II al n. 48 di Gaudium est spes: «L’intima comunità di vita e d’amore coniugale (…) è stabilita dall’alleanza dei coniugi». Questa alleanza è corroborata dalla misericordia di Dio, considerato che la sua attuazione secondo Amoris laetitia (n. 64) è «il vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza».

È a partire da qui che il “per sempre” è un’esigenza assolutamente necessaria per parlare di amore cristiano. Tutta la azione pastorale della Chiesa deve consistere nell’accompagnare con misericordia gli uomini perché arrivino a comprendere quello che Amoris laetitia, citando l’enciclica di Francesco Lumen fidei (n. 52), osa dire: «Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata».

Da più parti si levano voci secondo cui la Humanae vitae dovrebbe essere “superata”, secondo cui la sua dottrina non può considerarsi “definitiva”, ma può essere “sviluppata” nel senso di un’apertura ai mezzi anticoncezionali artificiali. Lei cosa pensa?

Il dibattito in occasione del 50esimo anniversario dell’enciclica Humanae vitae è stato molto meno intenso di quello che alcuni prevedevano. Fu più vivo nel corso delle discussioni sinodali, che potei seguire da molto vicino. Nell’Instrumentum laboris del 2015 era stato introdotto un testo che lasciava aperta una interpretazione molto ampia che metteva in dubbio la sua esigenza morale concreta. La posizione del Sinodo fu chiara, poiché eliminò il testo e si impegnò in una affermazione netta dell’importanza di questa enciclica («In questo senso l’enciclica Humanae vitae (cfr 10-14) e l’esortazione apostolica Familiaris consortio (cfr 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita») che è stata raccolta in Amoris laetitia al n. 222, la quale, inoltre, aggiunge un’altra difesa dell’attualità dell’enciclica (n. 82): «Va riscoperto il messaggio dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità».

Gli studi sulla redazione dell’enciclica hanno rivelato che Paolo VI non dubitò mai del contenuto obbligatorio della norma che propose a tutta la Chiesa e che l’aspetto personalista di questa norma era più presente nell’enciclica di quello che si credeva. L’insistenza del magistero posteriore nei seguenti quarant’anni è stata costante nel senso di rafforzarla e considerarla centrale, perché il santo papa Montini con grande saggezza aveva previsto con precisione quello che sarebbe accaduto se non si seguiva Humanae vitae, e cioè la enorme banalizzazione della sessualità che per molti si è trasformata in un oggetto di consumo e di manipolazione.

Secondo il teologo Maurizio Chiodi a certe condizioni i rapporti di tipo omosessuale possono essere considerati legittimi in quanto esprimono la categoria di «bene possibile che tenga conto della storia effettiva di un soggetto». Sbaglia o dice giusto?

Questo teologo esprime un’opinione che gioca sul doppio senso dell’espressione “bene possibile”, che compare in Amoris laetitia, utilizzandola in modo da trarre conseguenze contrarie a quelle che il magistero della Chiesa propone. Esiste un “bene possibile” misurato a partire dalle forze della persona, e un “bene possibile” a partire dalla morale, che è una prospettiva diversa. Una persona abituata a mentire può giudicare che in una determinata circostanza sia impossibile non mentire, mentre è impossibile che mentire sia un atto morale; anche se il nostro mentitore a suo parere ha fatto il possibile in rapporto alla sua storia concreta, egli non ha cessato di peccare. Misurare la legge a partire dalle nostre capacità soggettive è precisamente ciò che Amoris laetitia condanna (n. 295) seguendo la condanna di Familiaris consortio (n. 34) di una gradualità della legge che adatterebbe le esigenze della legge alle mie forze soggettive. Questo è un chiaro principio di relativismo che deve essere respinto.

La storia di un soggetto secondo il principio di narratività, da un punto de vista teologico, è una storia della salvezza che include come elemento centrale la conversione. Questa non dipende dalle forze umane, poiché ciò sarebbe un terribile pelagianesimo, ma da un’azione di Dio che lo converte fino a poter dire: «Tutto è possibile per chi ha fede» (Mc 9,23). La conversione, come indicò con grande insistenza Paolo VI nella sua esortazione Evangelii nuntiandi (n. 10), è il fine principale di tutta la evangelizzazione. Non la possiamo mai escludere dalla storia delle persone e necessariamente sarà vincolata all’adempimento delle esigenze del Vangelo. In questo senso, l’autentica prospettiva di san Tommaso sulla legge della gradualità è quella di una crescita graduale delle virtù che implica una conversione non graduale dal peccato in riferimento ad azioni che sono intrinsecamente cattive.

Questo è il modo di agire di Gesù con la Samaritana, che in una situazione nella quale secondo la sua storia umana sarebbe apparso impossibile che lei lasciasse l’uomo col quale conviveva, «rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo», come dice molto bene papa Francesco in Amoris laetitia (n. 294).

Lei cita spesso Amoris laetitia, ma a quattro anni dalla sua pubblicazione, è ancora molto caldo il dibattito fra chi dice che le sue innovazioni non sono state sufficientemente valorizzate dalla teologia morale e dalla pastorale della famiglia, e chi sostiene che non sono e non possono essere considerate innovazioni dottrinali, e quindi i contenuti dell’esortazione vanno letti nella continuità col magistero precedente in materia di matrimonio e famiglia. Come si colloca lei rispetto a questo dibattito?

Il dibattito resta aperto, anche se credo che sempre più lo conducano i teologi riguardo all’interpretazione di alcuni testi. Invece nella pastorale familiare di quasi tutta la Chiesa la situazione è molto più tranquilla, le conferenze episcopali che hanno preso posizione sull’esortazione sono state pochissime. Sembra che in quasi tutte le parti del mondo la si sia intesa come un’esortazione pastorale che deve essere incorporata, e non come una novità dottrinale che cambi tutto. Qualche autore ne ha parlato come di un “ciclone”, ma constatiamo che ha dato luogo a pochi cambiamenti.
Faccio parte del gruppo di professori dell’Istituto Giovanni Paolo II che per primi, in modo personale, hanno dato una interpretazione pastorale della esortazione. Con ciò abbiamo seguito le indicazioni che nel corso dei Sinodi costantemente venivano espresse dalle più alte istanze: non bisogna attendersi nessuna novità dottrinale, ma solo pastorale. Non troviamo ragioni per agire diversamente, per cui quelli che affermano il contrario sono loro che dovrebbero dimostrarlo, poiché la prima indicazione è molto chiara. Lo stesso papa Francesco più volte ha segnalato la necessità di leggere la esortazione come un insieme coerente e nella prospettiva di san Tommaso. Invece molti commenti teologici dei più vari si sono concentrati esclusivamente sul capitolo VIII, e per avvalorare la novità assoluta dell’esortazione hanno ignorato il fondamento tomista che il Papa ha segnalato.

In secondo luogo, noi abbiamo assunto la prospettiva di una continuità del magistero perché ci pare l’unica teologicamente possibile. In verità, non esiste il magistero di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI o di papa Francesco, ma l’unico magistero della Chiesa, del quale tutti essi sono continuatori. Il papa deve servire questo magistero esercitando il ministero di chiarificare la verità riguardante i contenuti proposti. Non siamo di fronte a una logica di mera autorità, come se un papa potesse contraddire quello che ha detto un altro papa e noi dobbiamo seguire costui per l’unica ragione che ha parlato per ultimo. La questione non è quale autorità dei due si imponga sull’altra, ma le ragioni della verità che indicano, che necessariamente vanno intese in una continuità.

Alcuni parlano di cambio di paradigma come se non si potesse comprendere la novità di una proposta a partire da un’altra. Per la verità, studiando con pazienza ciò che offrono i fautori del “cambiamento radicale”, io non vedo altro che una ripetizione di proposte che si facevano negli anni Settanta. Di fatto la relazione del cardinale Walter Kasper al concistoro del 2014 era presa quasi letteralmente dal suo libro sul matrimonio del 1978. Non so in che modo questo possa intendersi come un “nuovo paradigma”, quando in realtà aveva già ricevuto correzioni da parte del magistero che ha totalmente ignorato nella sua relazione. Il citato cardinale può considerare la sua proposta un “cambiamento radicale”, ma non è altro che un’opinione teologica abbastanza antica.

Resta attuale un grande compito di comprensione del vero Vangelo della famiglia, che richiede a mio parere un delicato “sentire con la Chiesa”. A partire da Amoris laetitia si deve realizzare una profonda conoscenza della realtà della chiamata universale alla santità di ogni matrimonio, della verità del suo vincolo che deve essere il centro di ogni discernimento, poiché, come dice l’esortazione (n. 315), «la spiritualità matrimoniale è una spiritualità del vincolo abitato dall’amore divino». Dove la fragilità di ogni uomo si deve vedere, come detto, a partire dalla forza della grazia che rende possibile vivere i comandamenti (se non vogliamo essere neo-pelagiani), dove il riferimento ai condizionamenti si deve intendere nella propsettiva dell’azione di san Tommaso e dove, soprattutto, è necessaria una maggiore comunione ecclesiale perché questa è il principio di ogni accompagnamento, integrazione e discernimento.

Nella mia esperienza, ciò che mi ha dato la fermissima convinzione della presenza della grazia di Dio nelle vite degli sposi è stato il fatto di accompagnare le coppie nella loro vita reale, piena di limiti e prove, ma illuminata da Dio. Tale grazia apre loro un vero cammino di santità perché siano «la luce del mondo» (Mt 5,14).

@RodolfoCasdei

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