Israele. Una tregua fragile per una pace che «non accade, non succede»

Di Giancarlo Giojelli
23 Novembre 2023
Papa Francesco ha incontrato i familiari di israeliani rapiti da Hamas e una delegazione di palestinesi. Un dialogo difficile, mentre ci si accorda per fermare per qualche giorno le ostilità
Il Papa durante l'incontro con due delegazioni, una israeliana e una palestinese, Città del Vaticano, 22 novembre 2023 (Ansa)
Il Papa durante l'incontro con due delegazioni, una israeliana e una palestinese, Città del Vaticano, 22 novembre 2023 (Ansa)

Davanti a papa Francesco dodici famiglie israeliane e dieci palestinesi. Incontri separati, impensabile che i due popoli possano presentarsi insieme davanti al Pontefice.

Raccontano le loro sofferenze.

Venti minuti per ciascun gruppo. Venti minuti per le famiglie degli ostaggi israeliani catturati nel raid terroristico di Hamas il 7 ottobre. Storie concrete, di persone, uomini, donne, bambini, filtrate dalla voce di chi li ama. Di chi li aspetta con una speranza sempre più flebile. Ci sono i genitori di ragazzi e giovani donne rapite durante il festival della musica, «un festival di pace e gioia», dicono. Ci sono i figli di uomini e donne rapiti nel kibbutz, mentre cercavano di lanciare messaggi di aiuto dai rifugi dove si erano nascosti dalla furia dei terroristi, alcuni anziani bisognosi di medicine, di cure, figli di sopravvissuti alla Shoah. Intere famiglie inghiottite nell’inferno di Gaza. Tra loro anche bambini piccoli; i genitori mostrano al Papa i loro giochi, orsacchiotti di pezza, piccole bambole. Francesco si commuove. Ascolta.

Una tregua difficile

Da Israele arriva la notizia che il governo è disposto ad accettare la tregua di quattro giorni in cambio della liberazione di 50 ostaggi, donne e bambini, ed è disposta a rilasciare 150 palestinesi accusati di terrorismo (ma non di omicidi). Una tregua che potrebbe prolungarsi: dieci ostaggi per ogni giorno in più senza combattimenti. I parenti sono scettici: chi garantirà che le condizioni saranno rispettate? Una madre piange, il figlio è un soldato: lui non sarà rilasciato. «Per liberare un militare rapito, Shalit, ci sono voluti oltre cinque anni di trattative, dal 2006 al 2011», dice. «Quando rivedrò mio figlio? Tra mille anni?».

Maaya ha il papà tra gli ostaggi. Lo hanno portato via da un kibbutz, ci mostra le cartoline che avevano preparato per gli auguri di Rosh Hashana, il capodanno ebraico: hanno disegnato una colomba, simbolo di pace.
«Speravamo che la pace fosse una possibilità vera, che la guerra non fosse l’ultima parola, che accadesse qualcosa ma “lo kore” – dice in ebraico abbandonando l’inglese sopraffatta dalle lacrime – lo kore’… lo kore’». Cioè: “Non è successo. Non succede”.

Tra poco sarà Hanukkah, la festa delle candele, che incontra il Natale Cristiano, ma alberi o candelabri a cui appendere la fragilissima speranza non si vedono.

Hamas usa i civili come scudo

Dice papa Francesco: «Temiamo che questa guerra sia ancora una volta dimenticata, la tregua non è la pace, il cessate il fuoco non risolverà i problemi. Il mondo deve saperlo». Qualcuno rimprovera al Pontefice di non aver denunciato pubblicamente Hamas come gruppo terrorista, altri non sono d’accordo. Lo scopo di questo incontro era quello di portare all’attenzione mondiale il nostro dramma. E il Papa lo ha fatto. E ribadiscono: Israele non vuole colpire i civili, è Hamas che se ne fa scudo. Scudi umani che si aggiungono agli ostaggi. E i morti tra bombardamenti e scontri a Gaza sono oltre 15 mila, 5000 bambini.

Il Papa non distribuisce ragioni o torti, come un algido giudice: ascolta, si fa vicino.

Venti minuti per gli israeliani, venti minuti per i palestinesi. Loro sono venuti con testimoni che sono riusciti ad uscire da Gaza, dove raccontano di padri e figli morti nei bombardamenti, o dopo ore di atroci sofferenze negli ospedali che non hanno più anestetici. Civili anche loro. Ricordano i detenuti palestinesi ancora in attesa di processo in Israele, accusati di aver in qualche modo favorito gli attentati, ma non ancora ascoltati da un giudice, che non possono vedere le loro famiglie. Rispondono alle accuse di terrorismo, allo sterminio di Hamas che il 7 ottobre ha massacrato 1.400 civili, accusando a loro volta il governo ebraico di deliberato genocidio.

Il Papa non ha usato il termine «genocidio»

Gli israeliani dicono: «Hamas ha ucciso i civili, donne e bambini perché ebrei». I palestinesi dicono la stessa cosa: «Ci bombardano per sterminare gli arabi, non importa se cristiani o musulmani». E non vogliono nemmeno citare Hamas: «Siamo qui per parlare dell’occupazione dei crimini israeliani», dicono.

Due incontri con i giornalisti, ovviamente in luoghi diversi in momenti diversi, in cui le parole del Papa vengono ripetute per rafforzare le opposte tesi.

Un rischio che Francesco sapeva bene di correre, un rischio inevitabile. E infatti mentre è in corso la conferenza stampa dei palestinesi già girano sui social diverse versioni delle parole del Papa. I palestinesi dicono che la descrizione di quanto avviene a Gaza è stata ascoltata dal Papa che poi ha ripetuto la parola genocidio: un’affermazione clamorosa che rimbalza sulle agenzie ma subito smentita.

A conferenza in corso la Sala Stampa della Santa Sede dichiara: il Papa non ha mai pronunciato la parola genocidio. Non in privato, non pubblicamente. Nel discorso fatto durante l’udienza ha piuttosto parlato di terrorismo. Ecco cosa ha detto, testualmente: «Questa mattina ho ricevuto due delegazioni, una di israeliani che hanno parenti come ostaggi in Gaza e un’altra di palestinesi che hanno parenti prigionieri in Israele. Loro soffrono tanto, ho sentito come soffrono ambedue. Le guerre fanno questo ma qui siamo andati oltre le guerre: questa non è guerra, è terrorismo. Per favore andiamo avanti per la pace, pregate per la pace».

Non un paragone, piuttosto l’accostamento di due sofferenze a cui non si sente estraneo come uomo. Al punto da esporsi a prevedibili critiche, perché in un conflitto nessuna parte è soddisfatta finché non vede accolte solo le proprie ragioni. E nell’incontro di Roma il Papa ha ascoltato le famiglie che più soffrono, ma la loro sofferenza almeno ora non lascia spazio al dialogo, all’incontro. Al perdono, come aveva implorato san Giovanni Paolo II nel 2000, nel pellegrinaggio giubilare in Terra Santa.

Pregare per la pace

Una persona che ha visto il Pontefice dopo gli incontri ci confida qualcosa di più: «Il Papa è preoccupato, molto. Non ci sono soluzioni facili in vista, le parti che dovrebbero trovare anche minimi accordi sono persino divise tra loro. Diviso il governo israeliano, divise le fazioni palestinesi. La diplomazia si muove sotto traccia, anche quella che non ha mezzi di pressione militari od economici». Ha solo un’arma che il Papa e il cardinal Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, ripetono dall’inizio del conflitto: la preghiera.

Il Papa ha invitato tutti a «pregare tanto per la pace. Che il Signore metta mano lì, che il Signore ci aiuti a risolvere i problemi e a non andare avanti con le passioni che alla fine uccidono tutti. Preghiamo per il popolo palestinese, preghiamo per il popolo israeliano, perché venga la pace».

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