Israele non ha nessuna intenzione di fermarsi
Beirut. Ieri sera gli incursori israeliani hanno cominciato a entrare in Libano. Una prima operazione annunciata da tempo in cui le forze speciali hanno messo fuori uso le infrastrutture di Hezbollah a ridosso del confine.
Benjamin Netanyah sta tenendo fede alla sua minaccia. «Abbiamo saldato i conti con Hassan Nasrallah. Ora siamo determinati a colpire il nostro nemico. Ovunque», ha detto il premier israeliano. «Non è ancora finita», ha annunciato il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, in un’affollata conferenza stampa. Per chi non avesse capito, il capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi ha rincarato la dose: «Con l’eliminazione di Nasrallah non sono finiti gli strumenti che abbiamo nella cassetta degli attrezzi. Sapremo come arrivare a chiunque minacci lo Stato di Israele».
Il cane che affoga
La prova l’abbiamo sotto gli occhi. Dichiarazioni che sembrano riassumersi nel vecchio motto cinese tanto caro a Mao Zedong: “Bisogna bastonare il cane che affoga”. Israele ha rinforzato l’esercito ai confini con il Libano e ha martellato con i raid tutte le basi di Hezbollah. Sembra un accanimento crudele, che colpisce la popolazione civile all’indomani della decapitazione di tutto il vertice di Hezbollah a soprattutto dell’eliminazione del nemico numero uno, Hassan Nasrallah, il segretario generale del partito armato sciita in Libano, colui che ha trasformato in trent’anni una milizia in un vero e proprio esercito che dispone di armi sofisticate.
«Un uomo che era un punto di riferimento per tutti, anche per i suoi nemici», dice Samer, un imprenditore libanese che ha vissuto per molti anni in Italia e da otto era tornato in Libano sperando di vedere la ricostruzione del suo paese. «Di fatto, tutti guardavano lui, dai suoi discorsi si capiva cosa sarebbe accaduto. Nel bene o nel male». Samer ci parla mentre ci troviamo sul bellissimo lungomare di Beirut, affollato di famiglie di profughi che ormai dormono sullo stradone. Gli alberghi, per chi può permetterseli, sono pieni. Il Libano intero è col fiato sospeso in attesa della nuova mossa di Israele: l’attacco via terra che le incursioni fanno prevedere.
Netanyahu vuole che tornino a casa, in sicurezza, i “suoi” profughi, gli israeliani fuggiti dal Nord della Galilea sotto la pioggia di razzi di Hezbollah. E, come nel 2006, Israele sembra valutare la miglior strategia e i limiti dell’operazione che si annuncia tutt’altro che indolore per tutte le parti. Essa avrà ripercussioni su tutta l’area del Medio Oriente, e non solo. La guerra “all out”, guerra totale.
Il bastone di Netanyahu
«Ci sono tre opzioni», dice a Tempi una fonte vicina alla leadership israeliana. «Un attacco che arrivi fino a Beirut e interrompa la strada che porta a Damasco attraverso la valle della Bekaa. Sarebbe la soluzione più drastica: è la meno probabile, ma non per questo impossibile. È quello che è avvenuto nel 1982 con la prima guerra del Libano, l’obiettivo era eliminare la minaccia palestinese e fu una guerra sanguinosa per tutti. La seconda opzione ricalca l’operazione del 2006, che fece almeno mille morti in Libano: un attacco che sospinga verso Nord le forze Hezbollah per almeno 40 chilometri, oltre il fiume Litani, un’area considerata da sempre la distanza di sicurezza in tutte le valutazioni militari. L’area dalla quale, secondo gli accordi presi 18 anni fa, Hezbollah avrebbe dovuto ritirarsi consegnando le armi all’esercito regolare sotto la supervisione delle forze Onu. La terza opzione è un’occupazione limitata alle colline che fronteggiano i villaggi e i kibbutz del Nord, in sostanza un allargamento del confine per controllare la zona da dove ora Hezbollah spara e lancia razzi contro i centri abitati. La terza è considerata l’opzione più probabile e meglio valutata dai vertici militari».
Ma gli estremisti sionisti vogliono soluzioni più radicali. Il cane sta affogando, il bastone è nelle mani di Netanyahu. E viene in mente una data: il 7 ottobre. L’orrore del massacro di Gaza verrà ricordato in tutto il mondo, commemorato con cordoglio e, al contrario, festeggiato dai nemici di Israele. Ci sono ancora cento ostaggi e Israele non ha ancora eliminato il capo di Hamas sul campo, Yahya Sinwar.
Il premier libanese, Najib Miqati, ha invocato una soluzione diplomatica, sperando che Stati Uniti e Russia si facessero mediatori di un accordo così da costringere alla trattativa Israele e Iran: la guerra non è certo tra Libano e Israele, ma tra lo Stato ebraico e l’Iran che agisce attraverso i suoi “proxy”.
«La parete è esplosa»
L’operazione sul terreno è stata preceduta da un attacco aereo diretto al cuore di Beirut. Il primo. Finora Israele aveva colpito solo la periferia Sud. Un missile ha colpito una casa a Verdun, un quartiere musulmano nel centro di Beirut. Un obiettivo mirato: sono esplosi il quarto e il quinto piano. Ci abitavano quattro palestinesi. Tre erano dei leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, una formazione di estrema sinistra che controlla in Cisgiordania il campo di Nablus, ostile alla Autorità nazionale palestinese. I tre capi erano evidentemente un collegamento tra la fazione palestinese ed Hezbollah. Il drone ha colpito il bersaglio con precisione. Gli abitanti dell’edificio sono stati evacuati.
Io sono arrivato sul posto mentre l’esercito stava isolando la zona. C’erano ancora due missili inesplosi nella casa. Un uomo, con una gamba ferita, era disteso a terra in un prato di fronte all’edificio. «Mi chiamo Ahmad – mi ha detto -, abito nell’appartamento vicino a quello colpito. Ero in sala. Di colpo la parete è esplosa: ho sentito un dolore alla gamba. Con mia moglie, mio cognato e i bambini siamo scesi dalle scale. Zoppicavo, ma sono riuscito ad uscire. La casa intera tremava. Come un terremoto. Ora andrò all’ospedale. Speriamo di poter tornare». L’edificio era solcato da ampie fenditure. Difficile che possa tornare ad essere di nuovo abitabile, ma non ho detto nulla ad Ahmad. Sopra di noi rimbombava il rumore dei droni che volteggiavano alti nel cielo.
Un fronte senza confini
Per capire come si svilupperà la guerra si guarda a Teheran. Tra i morti nel bombardamento che ha ucciso Nasrallah c’era anche un alto ufficiale delle Guardie della rivoluzione iraniana. In una cerimonia di commemorazione, la guida suprema Ali Khamenei ha usato toni duri ma è anche restato cauto nel rispondere con i fatti ad Israele.
«Mi sento abbandonata da Teheran», ha detto una profuga al più autorevole giornale libanese, l’Orient le Jour, che ha raccolto le voci dei quartieri sciiti. «Siamo davvero arrabbiati con l’Iran, che piange i nostri martiri “sulla via di Gerusalemme”, ma, di fatto, non è intervenuto: hanno visto come ci colpiva Israele, ma non vogliono irritare gli Stati Uniti e pensano a difendere il loro progetto nucleare».
«La risposta verrà al momento giusto e il momento lo stabiliremo noi», ha risposto a distanza Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano. “Se”, “come” e “quando” è impossibile saperlo.
E c’è un altro fronte, senza confini, che rende questa guerra imprevedibile quanto globale. Gli jihadisti sparsi nel mondo hanno dimostrato di poter colpire o almeno tentare di colpire chiunque sia legato ad Israele, e colpirlo ovunque: sinagoghe, scuole, centri pubblici, sedi diplomatiche. Colpire gli ebrei per colpire Israele e viceversa. L’antisemitismo è diventato uno strumento di una guerra che sul terreno viene combattuta qui in Medio Oriente, ma ha radici e possibili manifestazioni in tutto il mondo.
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