Le notizie allarmanti sui cristiani dell’Iraq non smettono mai di sorprendere. Un sito iracheno, con tanto di testimonianze, ha affermato che alcune milizie islamiche a Baghdad e Mosul ordinano ai cristiani di versare la jizya (l’imposta che garantiva ai non musulmani il diritto di praticare la loro fede nell’Impero islamico) raccomandando loro di «non farsi scoprire» dalle autorità governative.
Se così fosse, per la cristianità orientale si tratterebbe di un salto indietro a un tempo che essa vorrebbe dimenticare. I teologi musulmani si difendono facendo notare che quelle tassa era una sorta di “compensazione” per l’esenzione di ebrei e cristiani dal servizio militare, che il suo importo era comunque inferiore alla zakat (l’elemosina rituale) a carico dei musulmani, e che erano esentati donne, bambini, monaci, infermi e vecchi. Questi imam dimenticano però che a carico dei dhimmi gravava pure un’altra tassa, il kharaj, calcolato sui beni immobili fondiari e soprattutto che il pagamento della jizya era inteso come un gesto di umiliazione dei non musulmani, in ottemperanza alla prescrizione coranica del versetto IX, 29 («finché non versino la jizya individualmente e con umiliazione»). In effetti, gli storici riferiscono che gli appositi agenti dell’erario davano ai “contibuenti” un leggero colpo alla nuca. Si capice quindi l’allarme dei copti quando, qualche anno fa, la guida suprema dei Fratelli Musulmani ha dichiarato che «quando l’Egitto diventerà di nuovo uno Stato islamico i cristiani dovranno pagare nuovamente la jizya». La tassa era stata abolita sulle rive del Nilo nel 1855 da Muhammad Alì Pascià, il fondatore dell’Egitto moderno, tra le misure volte a eliminare le discriminazioni tra musulmani e cristiani. [email protected]
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