Un sacerdote coraggioso, un centro americano che si batte da 29 anni per il rispetto della libertà religiosa, due ex agenti dell’antiterrorismo, una charity generosa e 12 milioni di dollari. Sono serviti tutti questi elementi per trovare rifugio a 149 cristiani che dall’anno scorso vivono nel campo profughi della chiesa di Mar Elia ad Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno.
25 FAMIGLIE. Padre Douglas al-Bazi, che i lettori di Tempi conoscono, ha incontrato quest’estate Nina Shea, direttrice dell’Hudson Institute’s Center for Religious Freedom, e le ha chiesto di aiutarlo a trovare una sistemazione dignitosa per alcuni sfollati cristiani, ai quali lo Stato islamico ha tolto tutto. Le 25 famiglie, comprendenti persone dai due mesi ai 72 anni di età, avevano particolare bisogno di aiuto.
AGENTI ANTITERRORISMO. Assicurando il sostegno al sacerdote, Shea si è rivolta a Joseph e Michele Assad, due ex ufficiali dell’antiterrorismo americano, perché riuscissero a far uscire in sicurezza i 149 cristiani dell’Iraq e trovassero loro una sistemazione nei restii paesi occidentali. «È stata un’operazione complessa e snervante», ha dichiarato all’Abc Joseph Assad. «Devi coordinare tante cose: gli autobus, i voli, le autorità».
LA PICCOLA SLOVACCHIA. Per quattro mesi gli Assad hanno lavorato incessantemente, facendo spola tra gli Stati Uniti, l’Iraq e diversi paesi occidentali, per conoscere le famiglie di sfollati e padre Douglas e per incontrare le autorità dei diversi paesi a cui chiedere aiuto. Su circa 20 Stati contattati per chiedere asilo, tra cui l’America, quasi tutti hanno risposto picche. Dopo una lunga ricerca, la piccola Slovacchia (appena 5 milioni di abitanti) ha dato parere positivo, diventando il primo paese ad accettare un numero così grande di sfollati iracheni cristiani.
«DARE UNA SPERANZA». Il ruolo degli Assad (nella foto in basso a sinistra, al centro padre Douglas e il coordinatore del fondo Mercury One a destra) è stato fondamentale: «Devi sapere bene quali sono i requisiti per queste cose», racconta Michele. «Ci siamo informati molto bene sulle famiglie, i loro precedenti impieghi, se qualcuno avesse mai lavorato per l’intelligence o l’esercito in precedenza. Noi sappiamo al 100 per cento che queste persone non sono degli estremisti». Il marito si è imbarcato in questa avventura anche ricordando la sua storia: «Sono arrivato negli Stati Uniti dall’Egitto. La mia famiglia era perseguitata perché cristiana. Bisogna dare a queste persone una chance e una speranza. I cristiani sono il gruppo più vulnerabile: i musulmani hanno molti paesi arabi dove rifugiarsi».
MILIONI DI DOLLARI. Il costo dei trasporti e del necessario per mantenere le famiglie cristiane, cioè 12 milioni di dollari, è stato donato dalla charity Mercury One del famoso conduttore americano Glenn Beck. I 149 cristiani, tra oltre 125 mila sfollati in Kurdistan, sono atterrati in Slovacchia il 10 dicembre. Qui dovranno rimanere sei settimane in centri di accoglienza per tutti i controlli di rito, prima di ricevere asilo. «La Slovacchia è stata molto coraggiosa», sottolinea Assad. «Speriamo che altri paesi seguano il suo esempio». Il 14 dicembre anche la Repubblica Ceca ha annunciato di essere disposta ad accogliere cristiani iracheni a partire da gennaio.
AIUTARE I CRISTIANI. La storia di queste 25 famiglie è a lieto fine, ma ha un sottofondo drammatico che non si può ignorare. I cristiani non vorrebbero emigrare e abbandonare la loro terra, impoverendo così il Medio Oriente di una presenza storica e millenaria, ma continuare a vivere in Iraq. Questo purtroppo è impossibile se la comunità internazionale non si impegna concretamente per garantire una vita dignitosa agli sfollati. L’impegno umanitario però non basta, bisogna cacciare lo Stato islamico dai territori occupati e restituire ai cristiani le loro case. È per questo che molti vescovi iracheni continuano a chiedere un intervento militare di terra: perché i raid aerei non bastano a far indietreggiare i jihadisti e nessuno può vivere in un campo profughi per sempre «senza speranza di poter tornare a casa».
«APPARTENIAMO A GESÙ». Questo dramma è confermato da padre Douglas, che ha accompagnato i cristiani all’aeroporto di Erbil e ha dichiarato a World Watch Monitor: «In questo momento la mia anima è divisa in due: io devo ascoltare la mia gente e loro vogliono un futuro. Io posso aiutarli a trovare una via verso questo futuro. Nessuno deve essere obbligato ad andarsene, nessuno a restare. È una decisione molto personale. Cerchiamo un rifugio per il nostro popolo. Noi non apparteniamo a un terra specifica, ma a Gesù. Anche il figlio di Dio non ha posto dove poggiare il capo. Io amo il mio paese, ma se non ho un posto nel mio paese…».
Foto Wwm e Mercury One