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In Pakistan la vita dei cristiani vale meno di quella di un elefante

L’Alta Corte di Islamabad libera il pachiderma Kavaaan. Il mondo esulta, il giudice fa un sermone sulla sofferenza e i diritti degli esseri viventi. E i diritti di Maira, Huma, Shafqat?

Caterina Giojelli
20/08/2020 - 2:00
Esteri
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«L’ergastolo, senza aver commesso un delitto. Confinato in una cella sporca e angusta, incatenato, spesso bastonato». Così Repubblica quattro anni fa raccontava la storia di Kaavan, quella di una «condanna ingiusta», una storia di «catene, bastoni, digiuni forzati» in Pakistan che aveva indignato il mondo: per la libertà del giovane Kaavan si era battuta la cantante Cher, per il suo immediato rilascio 280 mila attivisti avevano firmato una durissima petizione innescando una potente campagna mediatica. Poi, qualche settimana fa: il lieto fine, l’Alta Corte di Islamabad ha emesso un ordine di liberazione, fine dell’isolamento e della prigionia, fine dei maltrattamenti e delle disumane condizioni di prostrazione a cui era stato costretto Kaavan, ormai depresso e impossibilitato a darsi pace dopo la morte della compagna Shaeli, avvenuta nel 2012. Kaavan, nato in Sri Lanka nel 1985, è dunque finalmente libero. Soprattutto, Kavaan è un elefante.

IL GIUDICE SULLA SOFFERENZA «INIMMAGINABILE» DEL PACHIDERMA

La sentenza è stata emessa a maggio ma solo in questi giorni trovano eco le parole con cui il giudice Athar Minhallah ha disposto la liberazione del pachiderma maschio di 35 anni che ha commosso l’Alta corte in questo drammatico frangente storico: secondo il tribunale l’emergenza Covid ha offerto agli esseri umani un’opportunità per «relazionarsi con il dolore e l’angoscia sofferti da altri esseri viventi» causati dall’«arroganza» degli uomini. «Gli animali hanno diritti legali?», secondo il giudice «la risposta a questa domanda è senza dubbio affermativa» in quanto esseri «viventi». E Kaavan non solo è vivo ma «sta davvero soffrendo ed è stato sottoposto a dolore e sofferenza non necessari. È solo e l’entità della sua sofferenza è inimmaginabile … I bisogni di questa creatura innocente non possono essere soddisfatti nella prigione di uno zoo». Applausi da Steven M. Wise, del Non-Human Rights project, secondo il quale il giudice Minhallah ha sostenuto «valori e princìpi di giustizia che ci proteggono tutti». L’elefante è stato quindi liberato e trasferito in un santuario per gli elefanti in Cambogia, dove godrà di cure, compagnia e vita piena e libera da catene. Questo Kavaan.

E LA SOFFERENZA DEI DUE SPOSI (INNOCENTI) NEL BRACCIO DELLA MORTE?

E dei diritti e della sofferenza di Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar? Condannati all’impiccagione senza aver commesso un delitto. Confinati da quasi sette anni in una cella lontani dai loro quattro figli, con l’accusa di aver mandato nel 2013 messaggi di testo in inglese ritenuti blasfemi, loro, poveri e analfabeti che non sanno scrivere in urdu e tanto meno in un’altra lingua. Due coniugi che vivono nel braccio della morte, lui storpio, costretto sulla sedia a rotelle a cui è stata estorta una confessione sotto tortura, lei, prima di venire allontanata dai suoi bambini impiegata come donna di servizio in una scuola gestita dalla Chiesa cattolica a Gojra (Punjab), dove nel 2009 più di 100 case di cristiani sono state bruciate da una folla di estremisti islamici in uno dei casi di persecuzione più famoso nel paese.

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LA MORTE DI BILAL E SAIMA, LE SPOSE-BAMBINE MAIRA E HUMA

Shafgat e Shagufta non sono elefanti, sono cristiani, come le 200 persone condannate a morte ingiustamente (40 delle quali nel braccio della morte, in attesa di esecuzione) in base alla nota “legge di blasfemia”. Cristiani come Bilal Masih, percosso a morte dai suoi datori di lavoro musulmani per futili motivi di un debito di entità risibile. O come Saima Sardar, infermiera che ha rifiutato di convertirsi all’islam e di sposare un uomo musulmano e per questo è stata uccisa a Faisalabad. Cristiani come la piccola Maira Shabbaz, la ragazzina di 14 anni rapita lo scorso 28 aprile da un commando di uomini islamici, costretta a convertirsi all’islam e sposare uno dei suoi rapitori: per lei nemmeno un “santuario” dove ricevere cure e conforto dopo la sentenza del Tribunale di Faisalabad che riconoscendo la sua minore età aveva ribaltato il verdetto di giudici in primo grado disponendo l’immediato allontanamento della ragazzina dalla casa del rapitore in un rifugio per donne a Dar ul Aman: in pochi giorni l’Alta Corte di Lahore ha nuovamente ribaltato la sentenza e costretto Maira a tornare dal suo “sposo”. Questo accadeva due settimane fa, mentre i giudici di Karachi emettevano un ordine di comparizione per lo sposo-aguzzino di un’altra ragazzina rapita, violentata e ora incinta, Huma Younas. L’8 agosto i suoi genitori hanno rivolto un drammatico appello ad Aiuto alla Chiesa che Soffre e ai media internazionali, «aiutateci a riportarla a casa».

In che modo l’emergenza Covid dovrebbe stimolare una riflessione su «il dolore e l’angoscia sofferti da esseri viventi» e inflitti dagli uomini? Non sono Maira o Huma esseri innocenti costrette alla prigionia al pari di un elefante dello Sri Lanka? E in che modo la morte di Bilal e Saima e sentenze sui cristiani incarcerati come Shafgat e Shagufta rispecchierebbero valori e princìpi di giustizia?

Foto Ansa

Tags: CristianiHuma YounasMaira ShahbazPakistanspose bambine
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