Sono 750.000 gli alunni con cittadinanza non italiana seduti sui banchi di scuola nell’anno scolastico 2011/2012. E tra cinque anni, saranno un milione. Il paese di provenienza più rappresentato è la Romania, poi vengono Albania e Marocco. È il Nord-est l’area più interessata, la Lombardia la regione col numero più alto di figli di migranti. Sono quasi 580.000 le scuole in Italia: in 500 di esse viene superata la percentuale del 50 per cento di presenze di alunni stranieri, e in una trentina si supera l’80.
Ma cosa si guadagna, se si guadagna, con gli alunni stranieri a scuola? Portano problemi, o aria nuova? E quale immaginario accomuna i “ragazzi di seconda generazione”, figli di immigrati, e i ragazzi italiani? Dove funziona meglio lo scambio, dove gli alunni – e gli insegnanti – imparano di più? Vinicio Ongini, 55 anni, è un ex maestro che attualmente lavora all’ufficio integrazione alunni stranieri del ministero dell’Istruzione. Per rispondere a queste domande ha viaggiato per due anni negli istituti più multietnici d’Italia: le sue impressioni le ha raccolte in un saggio, Noi Domani (Laterza, pagg. 192, euro 15).
Dalle montagne del cuneese ai quartieri periferici di Torino, Milano e Roma, dalle scuole dei piccoli indiani sikh, nei paesi della pianura padana, agli esercizi di patriottismo costituzionale nel Salento, dalla radio libera in un asilo multietnico di Bologna ai viaggi in Cina di studenti e professori toscani, alle maestre poliglotte del quartiere Ballarò a Palermo, emerge il ritratto di una scuola molto più sfaccettata, colorata, ricca di creatività e voglia di fare di quanto si immagini. Una scuola dignitosa, normale, che ignora i pregiudizi xenofobi perché impegnata costruire giorno per giorno, con le risorse che ha. Nessun monologo un po’ buonista sui pregi del melting pot: quello di Ongini è un reportage vivacissimo e corale, con le testimonianze di bambini e insegnanti, studenti, presidi, genitori, ma anche del gelataio del quartiere e del sindaco del paese, della tabaccaia di fronte alla scuola e della signora torinese immigrata in Calabria.
A Torino, ad esempio, nelle cui classi ci sono ragazzi provenienti da 130 paesi diversi, secondo una recente indagine, si hanno le scuole migliori d’Italia. La presenza di allievi stranieri non è di per sé un elemento negativo, non abbassa il “livello”. Anzi. In una regione piuttosto “verde” come il Veneto, gli alunni ottengono risultati eccellenti nelle prove di italiano e matematica condotte dall’Invalsi (Istituto Nazionale di Valutazione). E la scuola primaria “1° maggio” di Treviso ha da diversi anni una percentuale di alunni stranieri che si avvicina al 50 per cento.
«I “vantaggi” hanno bisogno di essere coltivati» commenta Ongini a tempi.it. «Vivono nell’humus dell’accoglienza e delle pratiche interculturali che gli insegnanti, e spesso gli amministratori locali, hanno messo in campo in questi anni». È così che nascono realtà come quella di “Scambiando si impara”, slogan delle scuole toscane che fanno periodicamente, da dieci anni, visite e scambi (di studenti, presidi, professori) con lo Zhejiang, la regione da cui proviene la gran parte dei cinesi in Italia. Il protagonista di questa relazione diplomatico-didattica? Un insegnante di italiano e storia dell’Istituto professionale di Prato. Il paesaggio multiculturale della scuola italiana è “policentrico e diffuso”: non solo le scuole delle metropoli ma anche di piccole città e paesi, ed è caratterizzato da una grande varietà di provenienze. Coinvolge in particolare i territori del Centro e soprattutto del Nord del paese, le scuole dell’infanzia e primarie, e sempre di più gli istituti tecnici e professionali. Più della metà degli alunni che le frequentano sono nati in Italia. Un capitale “internazionale” da non sprecare. Su cui investire risorse, inviando sul campo gli insegnanti e i presidi più motivati e capaci.
Secondo Olgini gli studenti stranieri fungono anche come «evidenziatore dei nostri modelli, delle nostre pratiche e dei nostri stili educativi». Essere visti e quindi “valutati” da “stranieri” è a volte fonte di malintesi, di incomprensioni, ma è anche un vantaggio: «Possiamo capire di più che cosa noi stiamo facendo e ridare significato al nostro fare scuola. Possiamo guadagnare dallo sguardo degli altri».
Come è capitato ai sindaci di due piccoli comuni, che hanno riaperto la scuola che stava per chiudere grazie all’arrivo di un gruppo di rifugiati afghani (a Riace, in Calabria) e di indiani punjabi (a Bordolano, nel cremonese). Insomma, «conviene guardare con più curiosità ed empatia quello che succede dentro questa nostra scuola, che è molto meglio di come viene raccontata. E nel suo piccolo, è il laboratorio dell’Italia di domani».