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Il sinodo sulla famiglia tra bolle e realtà

Breve ripasso di canoni e di fatti per evitare di attribuire a questo «speciale consiglio di vescovi» missioni rivoluzionarie che non ha

Giorgio Carbone
28/09/2015 - 1:00
Chiesa
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

La settimana scorsa il sinodo dei vescovi ha compiuto 50 anni di età. Ma nessuno gli ha fatto gli auguri, anzi nessuno se n’è accorto. Sarà perché siamo tutti proiettati al sinodo che si aprirà il prossimo 4 ottobre? Oppure perché a molti opinion maker cosa sia il sinodo non interessa proprio? Sembra che interessi piuttosto il tema del sinodo o meglio enfatizzare fino alla polemica più lacerante un sotto-sotto-tema. E per amore di bolla mediatica e di clamorose novità il sinodo dei vescovi è diventato per molti un concilio ecumenico.

Per amor di chiarezza è doveroso chiederci: cos’è il sinodo dei vescovi? E innanzitutto chiarire che non è un concilio ecumenico. Proprio negli ultimi mesi del Concilio ecumenico Vaticano II Paolo VI istituisce la realtà del sinodo dei vescovi con la lettera apostolica Apostolica sollicitudo del 15 settembre 1965. L’obiettivo cui mira Paolo VI è favorire e promuovere l’unione tra papa e vescovi «perché non ci venga a mancare il sollievo della loro presenza, l’aiuto della loro prudenza ed esperienza, la sicurezza del loro consiglio, l’appoggio della loro autorità» (Apostolica sollicitudo, in Enchiridion Vaticanum 2, § 444).

È pensato come un «peculiare consiglio di vescovi costituito in modo stabile» mediante il quale il papa ricorre «sempre più all’aiuto dei vescovi per il bene della Chiesa universale». Paolo VI ne determina anche le competenze: «Al sinodo dei vescovi spetta per sua natura il compito di dare informazioni e consigli. Potrà anche godere di potestà deliberativa, quando questa gli sia stata conferita dal romano pontefice, al quale spetta in tal caso ratificare le decisioni del sinodo. I fini generali del sinodo dei vescovi sono: a) favorire una stretta unione e collaborazione tra il sommo pontefice e i vescovi di tutto il mondo; b) procurare un’informazione diretta ed esatta circa i problemi e le situazioni che riguardano la vita interna della Chiesa e l’azione che essa deve condurre nel mondo attuale; c) rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo di agire nella vita della Chiesa. I fini speciali e immediati sono: a) scambiarsi le opportune notizie; b) esprimere il proprio parere circa gli affari, per il quali il sinodo di volta in volta viene convocato» (Enchiridion Vaticanum 2, § 447).

La fisionomia del sinodo dei vescovi disegnata da Paolo VI è ribadita anche nel Codice di diritto canonico del 1983. Il Codice al canone 343 dice: «Spetta al sinodo dei vescovi discutere sulle questioni proposte ed esprimere dei voti, non però dirimerle ed emanare decreti su tali questioni, a meno che in casi determinati il romano pontefice, cui spetta in questo caso ratificare le decisioni del sinodo, non gli abbia concesso potestà deliberativa». Quindi assimilare il sinodo dei vescovi a un concilio ecumenico è una vera frode intellettuale. Annunciare svolte epocali o parlare di rivoluzione nella pastorale è quanto meno azzardato o funzionale a produrre bolle mediatiche. Infatti, molto più sommessamente il canone 343 del Codice ricorda che l’assemblea del sinodo «discute sulle questioni proposte», «esprime voti», ma non dirime le questioni e non emana leggi.

La comunione ai divorziati risposati
Sinodo mediatico e sinodo reale: è una distinzione molto utile sia per il sinodo del 2014 che per quello prossimo. Il sinodo mediatico è il fenomeno, cioè la manifestazione esterna che del sinodo è prodotta da alcuni membri e da parte della stampa. Il sinodo reale è ciò che accade nell’assemblea e che per utilità di tutti i credenti è tradotto nel documento finale. Il sinodo reale coincide con il dato oggettivo, il testo finale, la Relatio Synodi.

Il sinodo mediatico è iniziato da molti mesi. Se prendiamo il sinodo del 2014, questo dal punto di vista mediatico è iniziato alla fine del 2013 per crescere soprattutto con la pubblicazione della relazione che il cardinale Walter Kasper pronunciò in occasione del concistoro del febbraio 2014. Poi sono seguite interviste, pubblicazioni di volumi, fino ad arrivare alla celebrazione del sinodo reale e alla sua chiusura. Ma il sinodo mediatico prosegue tuttora e verosimilmente proseguirà per altri mesi.

Il sinodo mediatico è stato preparato con una certa perizia con mesi di anticipo grazie anche alla sponda data dalla stampa, non specializzata ma sicuramente interessata, si pensi alle interviste rilasciate a più riprese sia dal Papa che da alcuni cardinali. Il sinodo mediatico ha generato nell’opinione pubblica molte attese, che sono state deluse dai fatti, cioè dal sinodo reale, e ha avuto il pregio di alimentare il confronto e il dibattito su alcune questioni e la preghiera di intercessione di tutti per il Papa e i membri del sinodo.

Il sinodo mediatico ha dato molto spazio al sotto-tema della comunione eucaristica alle persone divorziate-risposate. Ma tale tema è stato definito dal magistero di Giovanni Paolo II: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (esortazione apostolica Familiaris Consortio, n. 84).

Quindi, se i divorziati risposati, pur continuando a convivere perché esistono «seri motivi» si impegnano ad «astenersi dagli atti propri dei coniugi», allora possono essere ammessi ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia: come tutti sono chiamati a vivere la virtù della castità. L’ipotesi formulata dal cardinal Kasper non corrisponde al magistero perché in essa sarebbero ammesse all’eucaristia due persone che, non unite dal sacramento del matrimonio, hanno rapporti coniugali e quindi si trovano oggettivamente in una condizione di vita che contraddice quanto Gesù insegna sul divieto di adulterio e sulla castità.

Schönborn e la «scure» formalista
Molto recentemente La Civiltà cattolica (numero del 26 settembre 2015) ha pubblicato una bella intervista al cardinale Christoph Schönborn. Questi provocatoriamente enuncia il pericolo che «un modo di argomentare puramente formalista maneggi la scure dell’intrinsece malum. (…) Se mal compreso, l’intrinsece malum sopprime la discussione sulle circostanze e sulle situazioni per definizione complesse della vita. Un atto umano non è mai semplice, e il rischio è di “incollare” in maniera posticcia la vera articolazione tra oggetto, circostanze e finalità, che invece andrebbero letti alla luce della libertà e dell’attrazione al bene. Si riduce l’atto libero all’atto fisico in modo tale che la limpidezza della logica sopprime ogni discussione morale e ogni circostanza. Il paradosso è che focalizzandosi sull’intrinsece malum si perde tutta la ricchezza, anzi direi quasi la bellezza di un’articolazione morale, che ne risulta inevitabilmente annichilita. Non solo si rende univoca l’analisi morale delle situazioni, ma si resta anche tagliati fuori da uno sguardo globale sulle conseguenze drammatiche dei divorzi».

Detto in altri termini, un atto umano per il suo oggetto può essere anche intrinsecamente disordinato, ma tale malizia e disordine non ci deve esimere dal considerare gli aspetti relativi al soggetto che agisce, cioè i suoi fini e le circostanze dell’atto. E questi fini soggettivi e queste circostanze, quand’anche fossero oneste e buone, non potranno trasformare l’oggetto dell’atto da disordinato a ordinato, tutt’al più potranno ridurre o anche rendere nullo il grado di responsabilità dell’atto. Quindi, la situazione di vita di due persone divorziate e risposate in quanto situazione oggettiva è disordinata perché oggettivamente non sono unite con il sacramento del matrimonio. Ma in ragione di fattori soggettivi, come la circostanza dell’educazione dei figli e l’impegno a vivere castamente, la loro convivenza è soggettivamente ammessa e non è una colpa.

La dottrina tradizionale del male intrinseco, che riguarda l’oggetto dell’atto libero e non il fine soggettivo e le circostanze, non significa aprire le porte al regime delle infinite eccezioni, significa piuttosto ricordare che abbiamo una conoscenza diversa dei fattori oggettivi dell’atto umano e di quelli soggettivi. Dei primi possiamo avere certezza e giudicarli in modo nitido. Dei secondi spesso ne conosciamo solo alcuni, e anche senza la dovuta chiarezza.

Infine, il sinodo mediatico rischia di oscurare il sinodo reale: l’inchiostro e l’attenzione dedicati al primo sono infatti di gran lunga maggiori di quelli consacrati al secondo. Ma sta a noi andare alle fonti reali. Sta a noi scoprire il cuore dei due sinodi: come vivere e dire oggi la presenza attiva e vitale di Gesù Cristo nella famiglia e nel matrimonio?

L’autore dell’articolo è padre domenicano, Ordine dei Predicatori (Op)

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Tags: divorziati risposatiFamigliaPapa Francescosinodo
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