
La conferma forse più evidente della tendenza smaccatamente identitaria della “nuova” America di Joe Biden è arrivata martedì, quando il presidente eletto ha spiegato in un articolo per The Atlantic il motivo che sta dietro la sua scelta di nominare il generale Lloyd Austin come segretario della Difesa.
Scrive Biden:
«È stato il duecentesimo militare in assoluto a raggiungere il grado di generale dell’esercito a quattro stelle, ma solo il sesto afroamericano. Si è costruito una carriera fondata sul servizio al suo paese e ha stimolato questa amata istituzione a crescere in inclusività e diversità.
È stato il primo afroamericano a guidare un corpo di armata in combattimento e il primo afroamericano a comandare su un intero teatro di guerra; se confermato [dal Congresso, ndt], sarà il primo afroamericano a capitanare il dipartimento della Difesa»
A leggere i giornali, e non per forza quelli ostili a Biden, sembra quasi un fatto scontato che il criterio più importante di questa nomina sia la razza. Del resto proprio in questi giorni il Financial Times, al pari di molti altri organi di informazione, ha raccontato delle pressioni esercitate sul prossimo presidente dalla sinistra del Partito democratico e dalle varie organizzazioni per i diritti civili allo scopo di ottenere «più progressisti ed esponenti delle minoranze nella sua amministrazione».
STRAPPI ALLE REGOLE
La stessa nomina del generale Austin a capo del Pentagono, inattaccabile dal punto di vista identitario/razziale, appare invece abbastanza discutibile nel merito: pur di avere «il primo afroamericano» al vertice del ministero della Difesa, spiega sempre il Financial Times in un altro articolo, Biden si espone all’accusa di sacrificare i criteri della competenza (Austin non ha esperienze in Asia, malgrado la centralità del dossier Cina per gli Stati Uniti) e dell’assenza di conflitti di interesse (il generale è attualmente nel board dell’industria aerospaziale Raytheon Technologies). Non solo. Per ratificare la nomina di Austin, il Congresso degli Stati Uniti dovrebbe derogare alla legge che riserva il posto di segretario della Difesa a un civile, ovvero a un militare in pensione da almeno 7 anni. Austin si è ritirato da appena 4. Si tratterebbe del terzo strappo alla regola in 70 anni: il secondo lo ha chiesto e ottenuto – per James Mattis – proprio Donald Trump, a cui i democratici hanno sempre rimproverato l’allergia alle norme.
UN PROBLEMA “STRUTTURALE”
Soprattutto, lungi dall’«unire il paese» come promette in ogni occasione Biden, questo continuo appiattimento sulla cosiddetta “identity politics” rischia piuttosto di creare nuove divisioni. Divisioni non meno “razziste” di quelle attribuite alla destra trumpiana, soltanto di segno opposto. È la tesi esposta efficacemente da Lionel Shriver in un commento per lo Spectator.
Secondo la celebre scrittrice, «gli Stati Uniti adesso hanno un Razzismo Cattivo e un Razzismo Buono». Ma per quanto “buono” possa essere, il razzismo resta pur sempre «incostituzionale», ricorda la Shriver, e provoca un gran senso di ingiustizia. Altro che riunificazione. Esempio lampante è il fondo di emergenza creato dallo Stato dell’Oregon per aiutare la popolazione danneggiata dalla crisi del Covid: nel nome della lotta al “razzismo strutturale”, 62 dei 200 milioni di dollari stanziati, quasi un terzo del totale, sono riservati a famiglie e aziende di persone di colore, e questo sebbene «solo il 2,9 per cento degli abitanti dell’Oregon sono neri». In altri termini, prosegue l’articolo, «ai neri è concesso un sostegno finanziario dieci volte più grande di quello dedicato ai residenti di altre razze. Non è questo “razzismo strutturale”?».
LA DERIVA DELLA IDENTITY POLITICS
Sono i paradossi che nascono quando ci si illude di «risolvere la faziosità razziale con la faziosità razziale», osserva l’autrice. Un fenomeno messo in mostra in maniera clamorosa dalla «copertura mediatica offerta alle future nomine di Joe Biden, a partire innanzitutto e soprattutto dalla sua scelta per la vicepresidenza».
«I media hanno celebrato in massa Kamala Harris non per i risultati da lei ottenuti in politica, bensì per il suo sesso e la sua razza. Lo stesso Biden subito dopo la candidatura ha messo il paese sulla strada della identity politics annunciando che la qualifica principale del suo vicepresidente sarebbero stati i cromosomi XX. Considerato il clima sociale febbrile di quest’estate dopo l’omicidio Floyd, il suo successivo impegno a scegliere non solo una donna ma una donna che “si identifica come nera” era una conclusione prevedibile».
IL SETTARISMO DELLA STAMPA
Invece di destare perplessità, questo atteggiamento ha incoraggiato la stampa a perseverare nel settarismo. Scrive Lionel Shriver:
«Dopo le elezioni, le scelte di Biden per il gabinetto e lo staff sono state vagliate dagli osservatori quasi esclusivamente in base alla loro “diversità”: il numero di neri, di donne, di latinos, di gay, eccetera, mentre gli annunciatori tengono il conto della squadra che guida la classifica. Tanto per fare un esempio tra dozzine, il Guardian a metà novembre ha fatto questo titolo: “Cinque donne e quattro persone di colore tra le prime nomine di Biden”. Il think tank Brookings Institution ha pubblicato grafici a torta dei nominati dalle precedenti amministrazioni (bianchi, neri, asiatici, ispanici, indiani e arabi), in modo da seguire meglio l’andamento della gara sulla razza [the race race, ndt] tra Biden e i predecessori. (…) Quando le scelte di Biden vengono celebrate dal New York Times o dalla Cnn, sono apprezzate quasi esclusivamente in termini di diversità».
Naturalmente, è bene che una nazione composta da molte razze abbia un governo multirazziale, precisa la scrittrice. A sconcertare è il fatto che le capacità politiche e amministrative delle persone interessate passino in secondo o terzo piano rispetto al «livello letteralmente cosmetico» delle loro nomine.
«Se io fossi nominata vicecapo dello staff, mi darebbe fastidio essere considerata solo come una tacca in più nella colonna delle femmine. Lo stesso vale di certo per illustri designati neri».
UN BRUTTO GIOCO A SOMMA ZERO
È un «modo di pensare riduttivo», insiste la Shriver, che finisce inevitabilmente per dividere il mondo in «squadre in competizione per risorse a somma zero, siano esse i fondi compensazione per l’emergenza Covid o le nomine del governo». Con il risultato, in quanto alla diffusione dei pregiudizi razzisti, di «peggiorare la situazione».
«Le razze, i sessi, i gruppi di identità sessuale e i disabili sono incentivati a operare come sindacati o fazioni lobbistiche, i cui interessi sono mutualmente esclusivi e le cui relazioni sono perciò strutturalmente ostili».
In questo gioco a somma zero, tutti hanno solo qualcosa da perdere nell’affermazione di un “avversario”, come dimostra perfettamente (e forse inconsciamente) in poche frasi la cronaca di Repubblica dedicata appunto alla nomina del generale Austin. Citando molto a proposito questo articolo di Politico, il quotidiano romano la mette giù in questi termini:
«Il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, ha scelto il generale in pensione Lloyd Austin per la carica di segretario alla Difesa. Lo riportano i media Usa, tra i quali Politico e Cnn. Austin è stato il numero uno dello Us Central Command e il vicecapo di stato maggiore delle forze armate Usa. Sarà il primo afroamericano della storia a guidare il Pentagono. L’annuncio è atteso per venerdì.
In lizza c’era anche una donna, Michele Flournoy, inizialmente considerata favorita. “Ma Biden ha subìto una crescente pressione – scrive Politico – perché venisse nominata una persona di colore come suo segretario alla Difesa”».
Foto Ansa