Forse la leadership Ds, dopo anni di gelo, ha perdonato Nanni Moretti per la sua famosa sparata contro una classe dirigente «con cui non vinceremo mai» e ha applicato all’annosa questione dell’orgoglio laico di piazza Navona il famoso adagio di Ecce Bombo: «Mi si nota di più se vado o se non vado?». Alla fine hanno optato per la seconda ipotesi, disertando il raduno rosapugnone e facendo finta che quella contemporaneamente in corso a piazza San Giovanni fosse una rimpatriata tra coscritti. D’altronde andare al Family day, come avrebbe voluto Francesco Rutelli se non fosse stato ministro, non era proprio possibile: troppi preti, troppe suore, troppe famiglie normali. In una parola, troppo popolo. E mica siamo più ai tempi di Togliatti. Molto più edificante, invece, aderire ufficialmente e convintamente al Gay pride in programma a Roma per il 16 giugno. Quella sì che è una situazione cool.
Insomma, il Family day ha creato un bel terremoto in casa Ds. Ben lo testimoniano le parole proferite solo 36 ore dopo dal segretario Piero Fassino al comitato nazionale per la Costituente del Partito democratico: «Quella sui Dico è una buona legge, ma io non sono prigioniero di una formula». Quindici parole per azzerare di fatto mesi di impegno in favore del ddl e ammainare la bandiera in nome della sopravvivenza politica. Ma cosa pensano i compagni di Fassino di questa situazione paradossale in cui il partito delle masse non si sente a suo agio né in una piazza né nell’altra, come ha ammesso Massimo D’Alema? «Credo che una forza politica come la nostra debba avere a cuore la pace religiosa del paese, soprattutto in momenti come questi in cui il rischio di frattura è grave», attacca Luciano Violante, ex presidente della Camera e senatore diessino. «Quando la tensione attorno a un argomento come la religione tende a salire, quando si rischia lo strappo, allora bisogna lavorare per ricucire. Da questo punto di vista dico quindi che il partito ha fatto bene a non partecipare né a una manifestazione né all’altra. Una cosa voglio che sia chiara, però: mi stupisce che proprio il Vaticano abbia dato il via a un’iniziativa che può rompere la pace religiosa in questo paese. È stato un gesto imprudente». Poco importa che, se non altro in ordine temporale, la “provocazione” dei Dico sia venuta prima della “reazione” Family day. Per Violante il problema non si pone: «I Dico non toccano questioni eticamente sensibili, anzi è un bene che le persone si scambino responsabilità e doveri: dove sono in ballo i diritti di una minoranza allora siamo in presenza di una battaglia di sinistra». Gli ultimi spazzacamini o arrotini sono avvisati, un Wwf governativo è a loro disposizione. Ma caro Violante, come la mettiamo con la Margherita, l’altra metà del cielo di quel Dico chiamato Partito democratico? «Non conosco grandi partiti all’interno dei quali tutti abbiano opinioni che collimano. In tal senso anche il Partito democratico troverà una linea di mediazione oppure si voterà per decidere la linea». In caso di parità si vocifera sull’uso della monetina.
Se Anna Serafini si limita a dire che si riconosce appieno «nelle parole del segretario», ovvero di suo marito (la famiglia è un vero tabù in casa Ds), Nicola Latorre, il dalemianissimo capogruppo Ds al Senato spiega che «noi governiamo l’Italia, dobbiamo fare politiche concrete per la famiglia, non manifestazioni. E al tempo stesso dobbiamo creare un ampio consenso per la tutela dei diritti delle coppie di fatto. Detto questo, ciò che arriva dal mondo cattolico sotto forma di richiesta, di esigenza, va preso in amplissima considerazione». Ma era proprio necessario aderire al Gay pride? «Credo che sia un’esigenza che si inserisce nella necessità di non apparire neutrali in una discussione. Comunque i partiti devono governare e non manifestare. Ora mi scusi, sto entrando in una riunione in Vaticano». Ecco, appunto. Per l’onorevole Giuseppe Caldarola, ex direttore dell’Unità, fuoriuscito dal partito dopo la scissione guidata da Fabio Mussi, «il tema dei Dico è morto, non se ne parlerà più per il semplice fatto che il fronte contrario ha conquistato il segretario dei Ds e quindi gode di una maggioranza parlamentare blindata. A mio avviso la questione fondamentale non è lo scontro tra laici e cattolici ma l’eccessiva reazione della Chiesa di fronte all’avanzare della secolarizzazione. Perché i Ds non erano a piazza Navona? Perché ormai sono una fondazione senza cultura politica».
Ugualmente critico Lanfranco Turci, deputato ex diessino passato polemicamente alla Rosa nel Pugno: «Un conto è il tema delle politiche sociali per la famiglia, per le quali è essenziale trovare risorse. Un altro conto è la posizione di piazza San Giovanni sui Dico. Quel ddl è una decisione della maggioranza di governo e se i Ds proseguiranno su questa strada dovranno dar conto di questa sconfessione del programma elettorale. Già non è stato giusto disertare piazza Navona, ora poi il problema è tutto interno al Partito democratico, visto che sul quel disegno di legge c’è anche la firma della diessina Barbara Pollastrini. Fassino sa che ha rischiato di creare un vulnus tra i Ds e il resto della coalizione: ora sta a lui rimediare». Meno categorico ma comunque critico verso i Ds anche Antonio Polito, fondatore del quotidiano Il Riformista e ora senatore della Margherita in quota Partito democratico. «Il problema – attacca – è che i Ds di solito le manifestazioni le organizzavano. Ultimamente invece stanno aderendo un po’ troppo. Era ovvio che non potessero andare a San Giovanni vista la posizione sui Dico ma altrettanto chiaro era che anche la posizione ultralaicista e anticattolica di piazza Navona non facesse parte della storia del Pci prima e dei Ds poi. Il problema è che in questa situazione radicalizzata, i Ds pagano più di tutti il loro non essere né di qua né di là. Ma bisognerebbe avere il coraggio di dire che il progetto dei Dico è morto già da quel dì, la bozza uscita dal Consiglio dei ministri non ha una maggioranza in grado di sorreggerla, quindi tanto vale farsi del male politicamente. L’adesione al Gay pride? È l’ovvio prezzo da pagare all’eccesso di adesioni di cui parlavo prima. È una specie di contrappasso dantesco: la piazza, per anni idolatrata a torto dalla sinistra, ora si ritorce contro il suo principale usufruitore».
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
Codice ISSN
online 2499-4308 | cartaceo 2037-1241
Direttore responsabile
Emanuele Boffi