Il Piano per l’Italia spiegato da Carlo Calenda. Intervista al ministro

Di Alessandro Giuli
31 Luglio 2017
A un mese dalla sua partecipazione al Meeting di Rimini, il country manager in ascesa racconta i suoi progetti: industria 4.0, sviluppo sostenibile, mercati aperti, il nuovo ruolo strategico di Milano

Calenda ansa

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Carlo Calenda ha 44 anni, l’età giusta per essere sicuro delle proprie idee. Dirigente di alto profilo con un cursus honorum all’interno delle libere professioni e delle pubbliche relazioni, ministro tecnico per virtù, politico acquisito per necessità di governo. Di lui si dice che sia mosso da un ardore freddo e da un decisionismo spigoloso, pregi e difetti coincidenti. È l’unico membro dell’esecutivo a tenere testa a Matteo Renzi, che proprio per questo lo ammira come un seduttore sospettoso. Calenda non sembra un dissimulatore, quando dice che non fonderà un suo partito e non si travestirà da Macron à l’italienne. Ha una visione dell’Italia, questo sì: vorrebbe dirigerne le potenzialità di crescita internazionale, l’orgogliosa e rinnovata presenza nel settore dell’energia e della manifattura. Non è un protezionista per vocazione, il ministro per lo Sviluppo, ma le sue considerazioni rinviano a un “Patriottismo economico” che ci piace e persuade. Forse non diventerà premier, come sperano i suoi interessati corteggiatori di Palazzo, ma di fatto è già un credibile country manager italiano.

Ministro Calenda, il mese prossimo a Rimini lei parteciperà nella stessa giornata a ben due eventi del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Il 25 agosto, al mattino parlerà di rischi e opportunità dell’industria 4.0; al pomeriggio di “Sviluppo Economico: le risorse per l’Italia”. In poche parole, che cosa andrà a dire al popolo di Comunione e Liberazione? E a noi tutti, naturalmente?
Per costruire sviluppo e benessere l’Italia deve rimettere al centro un solido programma di politica industriale fondato su innovazione e internazionalizzazione. I dati sono chiari: la domanda internazionale sta spingendo il nostro export come mai prima, e continuerà a crescere nei prossimi decenni, ma sono ancora poche le imprese che esportano. Il rapporto tra esportazioni e Pil supera appena il 30 per cento, in Germania è vicino al 50, arrivare a quella soglia vuol dire importare in Italia i tassi di crescita del mondo. Per farlo dobbiamo mettere al centro gli investimenti. Il Piano nazionale industria 4.0 così come il Piano straordinario per il made in Italy lavorano proprio su questo obiettivo: allargare la base delle imprese esportatrici incentivando chi investe in innovazione e internazionalizzazione. Questi due fenomeni, innovazione e internazionalizzazione, sono una costante della storia umana, ma negli ultimi trent’anni la velocità del cambiamento ha spiazzato l’Occidente e ha anche creato spaccature, diseguaglianze, paure, sfiducia verso una classe dirigente che troppo spesso ne ha dato una lettura semplicistica. Per affrontare questa sfida con successo abbiamo bisogno di progetti “lunghi” e di molti più investimenti.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il Meeting è tradizionalmente un luogo di confronto e di intermediazione, parola che sembrava bandita fino a qualche mese fa dal vocabolario politico italiano. Oggi la disintermediazione va meno di moda, i corpi sociali tornano a parlare con la politica. Non pensa che sia un bene?
I piani industria 4.0 e made in Italy, così come la Strategia energetica nazionale, sono frutto di un lavoro condotto insieme ad associazioni d’impresa, sindacati, società civile. Il nostro paese è troppo complesso e articolato per escludere i corpi intermedi. Semplicemente le iniziative non arrivano al paese reale se non li si coinvolge sia nella fase di definizione delle policies sia nella fase di implementazione. Poi certo, occorre che si abbandonino approcci puramente rivendicativi e si dimostri di essere in grado di collaborare andando oltre la pura rappresentanza di interessi.

Tra i dossier più delicati tra le sue mani: lo sviluppo sostenibile, le energie rinnovabili, l’uscita dal carbone. Con quali prospettive? E che resistenze sta incontrando?
Una politica energetica in grado di supportare efficacemente uno sviluppo economico sostenibile deve riuscire a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e delle fonti mantenendo l’accesso ai servizi energetici a un prezzo accessibile e competitivo per famiglie e imprese puntando, contemporaneamente, alla sostenibilità ambientale della produzione di energia. Conciliare questi tre obiettivi fondamentali è una sfida non banale che abbiamo scelto di portare avanti con convinzione insieme agli altri stati dell’Unione Europea nell’ambito degli accordi internazionali sul cambiamento climatico di Parigi. Tale scelta, confermata al G7 di Taormina e ancora nella dichiarazione finale al G20 di Amburgo, ha riaffermato il ruolo dell’Europa come guida nel processo di transizione verso una economia decarbonizzata. In questo contesto va inserita la Strategia energetica nazionale e le linee di intervento in essa indicate: continuare a investire nell’efficienza energetica, nel settore delle rinnovabili, puntando a un obiettivo al 2030 del 27 per cento di quota, anticipare la decarbonizzazione attraverso investimenti in infrastrutture e con modifiche dei mercati energetici per garantire la sicurezza e l’adeguatezza della rete di trasmissione, prevedere l’utilizzo del gas come fonte per favorire il processo di transizione abbattendo il gap di prezzo con gli altri paesi europei. La prospettiva della nuova Sen che approveremo a settembre è chiara: la sfida ambientale può innescare crescita di qualità. E in questo caso la velocità dell’innovazione tecnologica è davvero solo una straordinaria opportunità.

L’Eni è ancora un bastione di eccellenza energetica strategica; Enel e Cdp fanno squadra e concorrenza ai “francesi” di Telecom sulla banda larga; Fincantieri prova a incunearsi nel mercato francese; Leonardo ex Finmeccanica gareggia in concorrenza e/o in partnership con Boeing in varie partite strategiche negli Stati Uniti. Insomma, i campioni nazionali esistono ancora, e il governo sembra sostenerli. È così?
Certo che esistono. Siamo la seconda potenza manifatturiera in Europa e abbiamo molte eccellenze internazionali. La politica industriale ha tre direttrici fondamentali: 1) il miglioramento delle condizioni di contesto, dalla concorrenza al prezzo dell’energia, alla difesa commerciale contro i comportamenti scorretti; 2) lo stimolo agli investimenti, alla produttività e all’internazionalizzazione; 3) il lavoro di accompagnamento e difesa dei grandi player nazionali pubblici e privati. Che ci piaccia o no il nazionalismo economico torna prepotentemente alla ribalta insieme al protezionismo. Mercati aperti e condizioni di reciprocità sono fondamentali per noi e dobbiamo sostenere le ragioni di relazioni economiche internazionali governate da questi princìpi, ma dobbiamo essere anche in grado di difenderci adeguatamente. Questo vale per il riconoscimento alla Cina del Market Economy Status, che avrebbe indebolito gli strumenti di difesa commerciale a nostra disposizione e a cui ci siamo opposti vincendo una battaglia difficile in Europa, così come per le acquisizioni predatorie da parte di paesi che non sono aperti agli investimenti esteri e che comprano brevetti e know-how per poi spostarli nel paese di origine. Con Germania e Francia abbiamo lavorato a una proposta per ampliare i poteri degli stati membri di verificare ed eventualmente bloccare questo tipo di acquisizioni. A settembre la Commissione europea dovrebbe darci il via libera.

Che cosa dobbiamo aspettarci, invece, su Alitalia? Tecnicamente è fallita?
Siamo intervenuti in Italia dopo che il piano di Etihad e delle banche, che prevedeva 1 miliardo di nuovi investimenti, è stato bocciato dai lavoratori. Un fatto davvero incredibile che è stato giustamente catalogato da una parte del sindacato come populismo sindacale. A quel punto l’alternativa era mettere gli aerei a terra o mettere l’azienda in amministrazione straordinaria dotandola di adeguate risorse per funzionare fino al completamento del processo di cessione. La prima ipotesi era impraticabile perché avrebbe interrotto molti collegamenti dalla mattina alla sera, causato la cancellazione di tutti i biglietti già venduti, generato un caos i cui effetti economici sarebbero stati ben peggiori dei 600 milioni di prestito. Ciò detto, per me la priorità è trovare una soluzione che non costi altri soldi ai contribuenti, garantisca i collegamenti per cittadini e stranieri, non rappresenti un’altra tappa di una storia tanto lunga quanto fallimentare. I commissari stanno lavorando su offerte che sembrano solide. Vedremo nei prossimi mesi.

alitalia ansa

Riusciremo ad avvantaggiarci della Brexit, per esempio portando a Milano l’Ema, l’Agenzia europea del farmaco?
In generale dipenderà dall’accordo finale tra Unione Europea e Gran Bretagna. Sarà un negoziato duro. Per quanto riguarda Ema, la partita è, come sempre in questi casi, molto difficile, ma abbiamo tutte le carte in regola. Tra l’altro ho più volte detto che tutto il mondo delle così dette life sciences è per noi un’opportunità straordinaria. Abbiamo un’accademia molto forte, tanti investimenti esteri importanti nel settore farmaceutico e un ricco tessuto di imprese di eccellenza nel biomedicale. Per l’Italia ospitare l’Ema rappresenterebbe il completamento di una strategia di sviluppo nel settore che più di tutti gli altri attrarrà investimenti nei prossimi anni. La presenza di un grande “hub di intelligenze”, come ha detto il presidente Gentiloni, farebbe di Milano un polo della ricerca nel life science, insieme al progetto di Human Technopole che sta nascendo nell’area dell’Expo 2015. E il nostro paese ha tutte le caratteristiche per essere la sede dell’Agenzia: competenze riconosciute a livello mondiale in ambito life science, connessioni logistiche e infrastrutturali che garantiscono un network ideale per le necessità dell’agenzia europea. La decisione finale dipenderà da molti fattori ma stiamo facendo un lavoro di squadra, dal Governo alla Regione al Comune, per giocarci al meglio la partita.

Come risponderebbe a chi sostiene che all’Italia manca da tempo ormai una politica di sviluppo industriale, una direzione strategica in cui far crescere l’economia?
È vero, è mancata per moltissimi anni. E anche per questo per noi gli anni della crisi dal 2007 al 2014 sono stati più duri che per qualsiasi altro grande paese europeo. Semplicemente ci siamo dimenticati di cosa ha portato prosperità e ricchezza a un paese distrutto dalla guerra e privo di materie prime. Venendo dal mondo aziendale, per me questo disinteresse della politica è sempre stato motivo di stupore. In un’economia di mercato il lavoro e il benessere possono venire solo se le aziende investono e assumono, non ci sono scorciatoie. Ho spiegato prima quali sono le direttrici di politica industriale che ho portato avanti, insieme a un piano di riforme che ha, credo, mostrato per la prima volta da molti anni una vicinanza al mondo delle imprese. Molto resta da fare e il giudizio spetta ai cittadini, ma quello di cui sono più fiero è aver cancellato un’idea di politica industriale dirigista dove il ministero decideva quali settori incentivare e buttava soldi a palate nei così detti incentivi a bando. Il Piano industria 4.0, che vale quasi 20 miliardi di euro in tre anni, è fondato invece su incentivi fiscali automatici, che escludono intermediazione politica e che premiano chi investe indipendentemente dal settore o dalla tecnologia. È un’impostazione che sottende una profonda fiducia nella capacità delle imprese di fare il proprio lavoro senza inutili interferenze dell’amministrazione pubblica.

Start-up e imprese giovanili. Sono in cantiere nuove iniziative? Il tema riguarda anche il così detto fenomeno dei Neet, giovani che non lavorano e non studiano, spesso figli dell’economia sommersa di cui ancora si parla troppo poco.
Quello dei Neet è un problema serio. È la vera sfida che l’Italia deve affrontare nei prossimi anni. Ci vuole una politica articolata e scelte coraggiose, come investimenti e riforme strutturali nel settore dell’istruzione, della formazione e del lavoro. In questo contesto, il sostegno alle start-up, attraverso misure a supporto della raccolta di capitali con l’obiettivo anche di accrescere l’occupazione giovanile, è stata ed è importante. Nell’ultima legge di bilancio abbiamo portato al 30 per cento l’aliquota di sgravio fiscale prevista per chi investe nel capitale di nuove imprese a elevato contenuto tecnologico (le così dette start-up innovative) e abbiamo anche introdotto la possibilità per le nuove aziende, nei primi 4 esercizi di attività, di cedere le proprie perdite a favore di una società quotata che detenga una partecipazione di almeno il 20 per cento. Su questi interventi i risultati ci danno ragione: il numero delle start-up innovative italiane è in crescita e a fine giugno ha sfiorato le 7.400 unità; le operazioni di finanziamento con l’intervento del Fondo di garanzia per le Pmi a favore delle start-up hanno registrato nel secondo trimestre dell’anno un cospicuo incremento. C’è ancora molto da fare, perché il gap sui volumi di investimento nelle nuove imprese innovative con quelli dei paesi guida a livello europeo è elevato, ma su questo tema stiamo continuando a lavorare per definire ulteriori interventi a supporto di start-up e imprese innovative.

Sarà davvero “lacrime e sangue” la prossima legge di stabilità autunnale?
No. La crescita del nostro Pil nell’anno in corso è superiore alle attese e il ministro Padoan ha efficacemente negoziato con l’Europa una curva di diminuzione del deficit meno violenta. Conseguentemente i parametri di bilancio su deficit e debito saranno più favorevoli, garantendo maggiore spazio d’azione. Stiamo lavorando affinché sia una manovra che lavori su investimenti, produttività e disoccupazione giovanile, in coerenza con il percorso iniziato l’anno scorso. Dobbiamo però sapere che non esistono provvedimenti dalle proprietà magiche. Ci vuole invece tempo perché le politiche di bilancio e le riforme strutturali combinate insieme diano i loro pieni frutti.

Il Fiscal Compact è un male necessario?
Il vero male non necessario che dobbiamo superare è la crescita del Pil, che nonostante le ultime stime al rialzo è ancora insufficiente, e quella della produttività. Al di là di Bruxelles, infatti, chi dobbiamo convincere delle prospettive e della stabilità del paese è anche chi il debito lo deve comprare. Per questo è essenziale prima definire con quali strumenti e quali politiche pensiamo di tornare a crescere almeno al 2 per cento annuo, generare più occupazione e incrementare gli investimenti. È imprescindibile quindi riprendere vigorosamente la strada delle privatizzazioni per abbattere il debito e non arretrare su quella delle riforme: concorrenza, diritto fallimentare, politiche attive, lavoro 4.0, pubblica amministrazione e rapporto Stato-enti locali. Poi, solo con un piano industriale credibile possiamo affrontare il tema del Fiscal Compact e della flessibilità di bilancio a Bruxelles. Con un caveat importante: qualsiasi spazio di manovra che venga da una revisione dei vincoli di bilancio non può essere sprecato in tagli fiscali a pioggia, ma deve essere concentrato in modo mirato su investimenti, abbattimento del cuneo fiscale anche per favorire nuove assunzioni e sul rafforzamento di un ammortizzatore universale contro la povertà. Il tema centrale oggi è questo, definire un piano industriale per il paese credibile e solido, poi gli spazi di manovra si possono trovare.

merkel gentiloni ansa

 

Non mi dica che non le fa piacere il fatto di essere fra i ministri più corteggiati e stimati all’estero e in Italia, sopra tutto dal mondo moderato.
Quello che mi fa piacere è che vengano “corteggiate”, nel senso di apprezzate, alcune delle cose che abbiamo fatto e stiamo facendo: il Piano industria 4.0, il Piano straordinario per il made in Italy, la Strategia energetica nazionale e, compatibilmente con le difficoltà di ogni caso, la gestione delle crisi industriali, la politica commerciale dove l’Italia è davvero riuscita a imporre la sua agenada. Mi fa piacere perché significa che servono a qualcuno: non a un generico “mondo moderato” ma alle imprese che investono in innovazione e a quelle che esportano, ai giovani che vogliono creare una start-up, ai lavoratori e alle aziende che si aspettano di pagare bollette elettriche meno care. Vedere cose che si realizzano è una grandissima soddisfazione. Da questi anni al ministero ho ricavato l’idea che quello che conta di più è la gestione. Molto più delle riforme. Si possono fare miglioramenti enormi se si abbandona l’idea che i ministri danno gli indirizzi e le strutture implementano. Un’idea a mio avviso folle. Nessuna azienda potrebbe sopravvivere se l’amministratore delegato si disinteressasse dell’implementazione.

Oggi lei si sente ancora un tecnico prestato alla politica o ammette di essere un politico a tutti gli effetti?
Faccio il ministro dunque sono un politico. Chiunque abbia questo onore indipendentemente dalla provenienza deve avere una visione politica e poi applicare le proprie competenze per portarla a compimento. C’è poi chi vorrebbe limitare lo spazio della discussione pubblica ai politici di professione, a chi ha una tessera di partito. Contro questa visione mi sono battuto quando facevo altro e ho continuato a battermi quando hanno cercato, senza successo, di spiegarmi che un ministro “tecnico” è in qualche modo meno titolato degli altri ad esprimere le proprie opinioni.

Infine. Ci regali un titolo, anche a contrario. Una cosa tipo: “Non fonderò mai un partito personale sul modello di Macron con En Marche”. Oppure mai dire mai?
L’ho già detto. Non lo farò, non è il mio mestiere e all’Italia non servono altri partiti. L’unica cosa che mi interessa è finire decorosamente il mio lavoro, ed è già una missione difficile. Come ripeto spesso faccio il ministro da poco più di un anno, e ho ancora da dimostrare di saperlo fare bene. Il resto non esiste.

@a_g_giuli

Foto Ansa

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