
Il coraggio di educare dopo Chernobyl

Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Tutti i membri della Fraternità di Comunione e Liberazione, in Italia e all’estero, all’inizio dell’anno hanno ricevuto una lettera del presidente, don Julián Carrón, che presenta un regolamento per contrastare il «dramma degli abusi sui minori», secondo le indicazioni del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, cui fanno riferimento tutte le associazioni e movimenti cattolici riconosciuti dalla Chiesa. Il regolamento è proposto in particolare all’attenzione di insegnanti ed educatori, i quali, per quel che mi risulta, hanno espresso di cuore la volontà di collaborare, ma anche turbamento per un’ombra di sospetto introdotto nel rapporto educativo. In effetti, a causa di ostilità culturale e interessi economici, la pressione imposta alla gerarchia ecclesiastica perché si assuma responsabilità civili e penali, quasi essa fosse per sua natura produttrice e copertura di abusi, è fortissima.
Conseguentemente sono anche forti le tentazioni dei genitori di sottrarre i figli all’educazione cattolica e degli insegnanti di non coinvolgersi troppo con i giovani loro affidati.
L’iniziativa del Dicastero per i laici per fare fronte, seguendo la preoccupazione del Papa, a un frangente storico che sta mettendo a dura prova la Chiesa, deve indurci non a una incertezza, ma a un sostegno fermo di ambiti e persone dedicate alla scuola e alla formazione cattolica.
Nella lettera di cui stiamo parlando, don Carrón ha molto opportunamente richiamato la verginità, come dimensione della vita cristiana che «non è prerogativa di chi ne ha fatto una scelta di vita». La verginità, infatti, è trattare cose e persone non secondo le proprie voglie e i propri calcoli, ma secondo il loro destino che è quello da cui e per cui sono fatte. Ciò toglie la paura di impegnarsi a fondo nell’educazione, che è un inevitabile rischio.
Mi permetto a tale proposito di riportare il mio intervento al convegno “Luigi Giussani. L’annuncio cristiano nella società post-secolare”, tenutosi a Madrid il 31 gennaio scorso.
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La mia non è una analisi del pensiero di Giussani sull’educazione. È il rendiconto sommario dell’esperienza di responsabilità condivisa per trent’anni. Si è trattato per l’appunto di una responsabilità educativa, crescente, prima con gli studenti universitari, poi anche con gli adulti. Si è trattato di educazione alla fede come fondamento di un rapporto adeguato con la realtà. Giussani era preoccupato che la fede fosse insieme sostegno e completamento della ragione, per affrontare la realtà, che, corrispondente o meno, ne verifica la consistenza in termini di giudizio e coscienza dell’io. La fede di Giussani era appassionata della ragione e della libertà, doti che l’educazione cristiana non può non valorizzare.
Il fondamento dell’intelligenza
L’aspetto della personalità di Giussani che più mi ha colpito (e cambiato) è stato l’intensa energia affettiva investita nei rapporti con le persone e gli avvenimenti. Io provenivo da una formazione centrata su una razionalità analitica finalizzata alla comprensione e al controllo intellettuale di se stessi (moralità), delle cose (studio e lavoro), degli altri (amicizia). Il risultato era, nonostante l’intensità delle emozioni, l’ideale di un’umanità compassata, resistente al coinvolgimento affettivo. Anni dopo il nostro incontro, Giussani mi disse che lui era partito dal Polo Nord e io dal Polo Sud, incontrandoci però all’Equatore. La sua impostazione umana era sensibilmente diversa: per lui l’intelligenza, intesa come comprensione profonda (intus-legere), non era indipendente, ma fondata dalla affettività. Per capire era necessario essere tesi, attenti e quindi colpiti (affecti) e mossi nella libertà; come avviene nel bambino che impara assorbendo dai genitori, cui è legato da una dipendenza essenziale.
Aveva evidentemente ragione, dimostrata dalla esperienza di chi insegna e di chi apprende. L’affezione non è un sentimento a caso, ma il sentimento positivo suscitato da un incontro in cui si riconosce una corrispondenza e una dipendenza che si traduce in sequela. In questo senso Giussani ricordava che «se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Per lui il metodo paradigmatico di ricerca della verità era quello descritto nell’incontro dei due discepoli del Battista, che, aderendo all’indicazione di questi andarono dietro a Gesù e, rispondendo al suo invito «venite e vedrete» (Gv 1,39), stettero con lui. Affascinati, lo seguirono per tutta la vita. Giussani ripeté questo racconto decine di volte; l’edizione più bella è nel video del suo intervento dal titolo “Riconoscere Cristo” agli Esercizi degli universitari di Cl nel 1994. Si può trovare in Google.
Giussani non aveva alcuna esitazione nella proposta educativa, che sempre era rivolta alla ricerca e affermazione del senso profondo della realtà, Cristo. Nel suo testo fondamentale Il rischio educativo, dice, seguendo lo Jungmann, che l’educazione è «introduzione alla realtà totale» (pag. 15), dove “totale” non indica la conoscenza di tutto ciò che esiste, ma la conoscenza del particolare come apertura e rapporto con tutto ciò che esiste. Citava spesso l’episodio in cui, giovane prete in tonaca, si era trovato di fronte a due ragazzi che si baciavano in strada. I due immediatamente si interruppero temendo una ramanzina – erano gli anni Cinquanta. Lui disse solo: «Quello che fate, cosa c’entra con le stelle?». Se non c’entrava con le stelle, cioè con la totalità, era privo di senso e non aveva valore. Coerentemente con quanto scritto nel 1960 in un libretto che documentava l’esperienza degli inizi di Gioventù studentesca, il movimento di liceali da cui venne poi Comunione e Liberazione, il suo richiamo era: «Deciso come gesto, elementare nella comunicazione, integrale nelle dimensioni e comunitario nella realizzazione» (pag. 25).
Bando allo psicologismo
Giussani, come disse molto più avanti, puntava tutto sulla libertà dell’interlocutore, di cui cercava di avere stima infinita, cioè senza misura. Tante volte ci siamo detti che stando con lui ci accorgevamo che ci prendeva molto più sul serio di quanto ci prendessimo noi stessi. La sua stima della libertà non aveva nulla dell’astratto ottimismo che caratterizza il volontarismo di oggi. Anzi, diceva di essere pessimista a riguardo dell’uomo per la sua fragilità, tanto quanto era ottimista a riguardo della storia, ultimamente nelle mani di Dio. Stimava la libertà perché era la dote data da Dio all’uomo, per riconoscerlo e amarlo. In uno dei suoi ultimi esercizi spirituali alla Fraternità di Comunione e Liberazione disse che Dio aveva fatto la sua creatura – il «nulla» – non perché gli si sottomettesse ma perché lo amasse, anche se con questa libertà poteva dirgli “no”.
Oggi l’educazione è ridotta a una specie di psicologia minore, con gli psicologi spesso arbitri e giudici degli insuccessi di genitori e insegnanti. Giussani, pur non avendo coltivato la psicologia, aveva in proposito intuizioni geniali – basti l’accenno sopra riportato alla affettività come dimensione fondamentale della persona –, che lo rendevano anche particolarmente efficace nel sostegno delle persone mentalmente disturbate. Tuttavia, pur non disprezzando affatto il contributo della psicologia, la sua azione educativa non cedeva in nulla allo psicologismo, che intende anche la più alta espressione umana come risultato di un meccanismo puramente biologico. Per quanto richiamasse che «quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur» e che quindi sempre bisogna tenere conto dell’interlocutore, diceva e scriveva anche che non bisogna essere ambigui, reticenti, timorosi di «mettersi in urto» con persone o situazioni. La libertà è fatta per aderire alla verità, che la evoca prepotentemente suscitando adesione o, proprio a causa della sua evidenza, ribellione e rifiuto, come mostra la vicenda di Cristo. Rischio non è abbandonarsi al caso, ma è propriamente seguire la ragione quando questa ci mette nelle mani di un altro, che si manifesta come più grande e potente di noi. L’educazione non è semplicemente chiarire le cose, ma è un’attrazione e un indirizzo dell’energia personale, che è provocata al giudizio (cultura), azione (carità) e confronto (missione), in un contesto non individualistico, ma comunitario, fatto di testimonianza e sostegno reciproco.
Le radiazioni e l’incontro
Che cosa può muovere l’energia della libertà? Non certo una verità cristallizzata in dottrina o precetto morale. In un raduno di responsabili universitari del 1986, Giussani osservò che vedeva la loro generazione come se fosse stata colpita dalle radiazioni di Chernobyl – era appena successo il disastro –: esteriormente bella e sana, ma dentro malata, svuotata dell’energia affettiva, incapace di aderire al vero, per quanto riconosciuto. Che cosa poteva rimediare un tale dramma umano? Non bastava un progetto culturale o un insistito richiamo all’impegno – lo dimostrava il già marcato indebolimento dell’interesse dei giovani per il cattolicesimo. Come per i primi discepoli – la storia è la stessa, allora e ora – era necessario un incontro, un avvenimento capace di catalizzare il movimento dell’intera personalità, con la sua intelligenza, emotività e carattere verso il significato di tutto. Ci vuole entusiasmo, senza del quale i racconti e le spiegazioni sulla Chiesa e la sua storia assumono un sapore archeologico, se non mitico, come tende a succedere oggi. La tradizione, che è lo strumento indispensabile di trasmissione della verità cercata e riconosciuta da chi ci ha preceduto, diventa oggetto di attenzione e interesse quando è proposta in modo vivo, pertinente al presente. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede», diceva san Paolo, e impossibile perché non c’è la presenza a cui affidarsi. La comunità cristiana è la presenza fisica e vicina del mistero vivente di Cristo. Giussani ha rischiato tutto se stesso indicando le persone e i gruppi, in cui lui vedeva un’umanità nuova, seguendo la quale l’avvenimento di Cristo diventa comprensibile, concreto e pieno di speranza per la vita: «Il centuplo quaggiù e la vita eterna», disse Gesù agli apostoli che gli chiedevano cosa avrebbero avuto in cambio della loro sequela. «L’educatore… non è conservatore, perché per sua natura affida la propria posizione alla serietà di impegno di chi ha da educare e perciò affida qualcosa di se stesso alla creatività dell’altro»; appunto, l’educazione è un “rischio”. Di più, se l’educazione comincia ed è incentrata su un avvenimento, l’educatore, nel rapporto con gli educandi, siano giovani o adulti, non può pensare “sono un avvenimento” o “adesso realizzo un avvenimento”, ma deve lui stesso essere consapevole dell’avvenimento che lo determina e indicarlo. Così l’educazione assume una dimensione oggettiva.
Per non vivere alienati
Sempre nel Rischio educativo, dopo avere richiamato più volte la decisività dell’esperienza personale come luogo della formazione della coscienza, dice quanto segue (pag. 77): «L’unico modo per non vivere alienati in questa società, così terribile nei suoi strumenti di invadenza, è avere il senso della storia, vivere genuinamente la propria crisi, impegnandosi adeguatamente con la tradizione in cui si è nati, con la proposta cristiana, ed è magnifico che questa proposta, unica fra tutte le altre, abbia un carattere così concreto, così esistenziale: sia una comunità nel mondo, un mondo nel mondo, una realtà diversa dentro la realtà, e non diversa per interessi diversi, bensì per il modo diverso di realizzare i comuni interessi».
Appunto: la proposta e l’educazione cristiana fanno riferimento a fatti di umanità nuova, presenti e sperimentabili. Questa chiara consapevolezza è il contributo più grande a sostenere gli educatori in un mondo che, spaventato dal proprio libertinismo, ha introdotto nel processo educativo il sospetto dell’abuso, cui, per quanto uomini di Chiesa abbiano ceduto, la Chiesa non può piegarsi, a prezzo di venir meno alla sua missione.
Foto Ansa
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