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Il caso Chevron, la colossale truffa giudiziaria ambientalista che in Italia nessuno racconta

19 miliardi di dollari di risarcimento ai contadini ecuadoriani rovinati dalle trivellazioni. Sembrava il trionfo della giustizia sociale e dell'ecologia sulla spietata multinazionale del petrolio. Ma le cose, in realtà, non stavano proprio così

Pietro Piccinini
29/03/2014 - 2:00
Ambiente, Esteri
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Tre anni fa, quando il tribunale di Lago Agrio, Ecuador, condannò Chevron a pagare 19 miliardi di dollari per lo scempio causato in decenni di attività petrolifere nella regione dell’Oriente, un po’ tutti i giornali e le tv, anche in Italia, la raccontarono come il trionfo del bene sul male. Si trattava del risarcimento più esoso mai deliberato fino ad allora per una causa ambientale, e alla pigrizia dei cronisti di tutto il mondo apparve subito doveroso gettarsi nella narrazione dell’epica rivincita dei poveri invisibili contadini ecuadoriani sul prepotente Golia multinazionale (New York Times).

Già, la perfida multinazionale. La ricca e avida Chevron, terza compagnia degli Stati Uniti, con incassi che ballano intorno ai duecento miliardi di dollari ogni anno, nonostante la sua enorme disponibilità finanziaria e uno stuolo di micidiali mastini del foro al seguito, dopo quasi vent’anni di battaglia legale senza quartiere era stata messa in ginocchio da una banda di impotenti agricoltori sudamericani. Ovvero dal loro impavido avvocato, Steven Donziger di Manhattan, un figlio di Harvard che aveva dedicato la sua intera carriera alla nobile causa di quelle insignificanti vite dannate dal petrolio. Terminati gli studi e smesse le partite a basket con il compagno di università Barack Obama, l’eroico Donziger si era circondato di avvocati militanti di Oxfam e Human Rights Watch ed era partito alla volta dell’Ecuador per ereditare dal suo maestro quello che si sarebbe risolto come – parole sue – il «primo caso di un piccolo paese in via di sviluppo che ottiene un qualche potere su una multinazionale americana».

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Insomma una storia perfetta per un film-verità alla Al Gore. E infatti Donziger un film sulla sua crociata verde lo ha commissionato davvero. Si intitola Crude, Greggio, lo ha girato il documentarista Joe Berlinger seguendo Donziger dappertutto per tre lunghi anni, ed è stato presentato nel 2009, manco a dirlo, al Sundance Film Festival di Robert Redford, icona liberal e gran cavaliere di tutte le foreste pluviali del pianeta.

chevron-donziger-ecuador-caso-date-tempiLa bella favola infranta
Fin qui, i contorni più o meno noti di una tra le campagne ambientaliste meglio riuscite della storia, scodellata al grande pubblico e ovviamente promossa negli anni dagli immancabili vip come Sting e Daryl Hannah. Tutti pronti a farsi fotografare con la mano intinta nelle pozze di nerissime acque reflue, residui dell’estrazione del petrolio, che ancora macchiano intollerabilmente quella fetta di foresta amazzonica. Invece gli ingredienti segreti, o meglio inconfessabili, di questa minestra ecologica sono emersi rumorosamente solo adesso negli Stati Uniti, ed è un peccato che in Italia non se ne sia accorto quasi nessuno perché, per usare i termini letterali utilizzati dal Wall Street Journal, è stata la demolizione della «truffa giudiziaria del secolo».

Il 4 marzo scorso Lewis Kaplan, giudice del distretto meridionale di New York, ha dato ragione a Chevron, che nel frattempo, mentre la giustizia ecuadoriana si apprestava a crocifiggere i petrolieri yankee tra gli applausi del bel mondo, aveva intentato una causa contro Donziger e il suo team legale perché secondo la multinazionale californiana il processo del tribunale di Lago Agrio terminato con la spettacolare sentenza record (poi confermata nel novembre 2013 anche dalla Corte suprema ecuadoriana, sebbene con ammenda ridimensionata da 19 a 9,5 miliardi di dollari) era stato inficiato da sotterfugi e frodi di tutti i tipi.

Proprio così. Secondo il giudice americano, i buoni contadini ecuadoriani avevano vinto contro la cattiva multinazionale non per giustizia divina ma perché Donziger e i suoi avevano forzato la mano alla corte, manomesso i dati in combutta con il perito del tribunale, falsificato le analisi, perfino corrotto un giudice promettendogli 500 mila dollari di ricompensa per il verdetto favorevole. Il tutto mentre davanti alle telecamere e ai microfoni dei giornalisti si divertivano a evocare sospetti sul potere di influenza che la ricchissima Chevron avrebbe potuto esercitare sul vulnerabile sistema della giustizia dell’Ecuador.

Maledetta la vanità
Ironia della sorte, a segnare la rovina giudiziaria di Donziger è stato proprio il film che lo ha reso una star internazionale. Per la precisione, le seicento ore di girato grezzo che il giudice Kaplan ha deciso di acquisire tra gli elementi processuali dopo che gli avvocati di Chevron avevano notato alcune piccole ma importanti discrepanze tra la versione presentata al festival e quella montata per il dvd.

Sono state infatti le scene tagliate di Crude a rivelare, tra le altre cose, che Donziger e i suoi assistiti sapevano in anticipo che il tribunale di Lago Agrio avrebbe nominato come perito “indipendente” l’ingegnere Richard Cabrera. E sono state le indagini su questa stranezza a dimostrare come la valutazione dei danni prodotta da quest’ultimo era stata scritta in realtà da Stratus, società di consulenza ambientale del Colorado che pochi giorni prima della pubblicazione del rapporto “indipendente” aveva spedito via email in Ecuador un curioso documento in inglese che iniziava così: «Questo rapporto è stato scritto da Richard Cabrera».

È per colpa di quel maledetto film che è crollata la «truffa giudiziaria del secolo» e il paladino degli “afectados” (gli “infetti”) è finito sotto accusa con tutte le sue carte piene di magheggi.

Del resto Donziger non è mai stato un boyscout disinteressato. Pur senza fargliene una colpa, è ancora il giudice Kaplan a ricordare nelle motivazioni del suo verdetto come l’avvocato di Manhattan si attendesse un onorario di oltre 600 milioni di dollari dalla causa contro Chevron. E non è che gli sponsor della sua offensiva mediatico-giudiziaria fossero idealisti molto più candidi della malvagia multinazionale del petrolio, visto che il legale dei poveri contadini ecuadoriani poteva contare sugli investimenti milionari di signori squali della finanza, come per esempio gli hedge fund Burford Capital e Patton Boggs, prontissimi a scommettere pesantemente sulla buona causa della foresta pluviale nella prospettiva di incassare alla grande in caso di vittoria in tribunale.

Si chiama “litigation finance”, e in America ormai non è neanche più una notizia. Ma combinata con l’intenzione di Donziger di diventare il pioniere universale di un nuovo «business model for a human-rights case» (parole sue consegnate allo sciccosissimo New Yorker) restituisce dell’uomo un’immagine tremenda, soprattutto dopo i fatti ricostruiti da Kaplan. Si capisce perché adesso il Wall Street Journal esprima il proprio sollievo per la punizione di un «disonesto» che «tenta di sfruttare le giurie del Terzo mondo per dissanguare le imprese americane a prescindere dal merito».

Chi ha le mani sporche
Merito che per altro Chevron non ha mai contestato più di tanto, eccezion fatta per le perizie taroccate da Donziger e soci. Il colosso petrolifero non ha mai negato l’importanza dei danni ambientali inflitti alla regione dell’Oriente, così come non l’ha messa in discussione il giudice Kaplan. È chiaro che dai pozzi petroliferi non escono violette profumate. Ma se il disastro causato in Ecuador ha un responsabile americano, quello è Texaco, che per trent’anni, fino al 1992, ha condotto tutte le trivellazioni nella zona e che è stata acquisita da Chevron solo nel 2001 (magari, questo sì, sottovalutando leggermente i possibili sviluppi del processo giudiziario portato in eredità).

E Texaco le sue responsabilità se le assunse già nel 1995, due anni dopo l’inizio di questo infinito contenzioso, bonificando a proprie spese il 37 per cento del disastro ambientale imputatole. La restante porzione delle piscine di acque reflue non è affare degli americani, come ha riconosciuto anche un arbitrato internazionale all’Aja nel 2009. Ripulirle spetterebbe alla compagnia petrolifera di Stato ecuadoriana, Petroecuador, che nel consorzio autore di tutte le sconcerie deteneva la maggioranza (mentre Texaco aveva appunto il 37 per cento del capitale).

Secondo Chevron tocca dunque al governo di Quito sistemare il paciugo tossico. È sempre stata questa la sua linea di difesa. Invece Rafael Correa, il piccolo Chávez ecuadoriano, divenuto presidente nel 2006, si è precipitato a visitare l’Oriente per intingere la mano nell’acqua nera come i divi del cinema e ha sposato appassionatamente la battaglia di Donziger, con tanto di dichiarazione a effetto: «C’è stato un crimine contro l’umanità qui».

Il giudice di Clinton
La disputa legale comunque non è affatto finita. Certo, il verdetto di New York è destinato a pesare sulle capacità belliche di Donziger, anche perché è stato pronunciato in piena era Obama – brutta aria per i ricconi – e per di più da un giudice, Lewis Kaplan, che nell’immaginario collettivo sarebbe idealmente più vicino al paladino degli “afectados” ecuadoriani che non ai petrolieri senza scrupoli di Chevron, essendo stato nominato da Clinton nel 1994 ed essendosi distinto per la concessione della prima causa civile a un detenuto di Guantanamo. Tuttavia l’ingiunzione di Kaplan impedisce a Donziger solo di fare applicare la sentenza fraudolenta di Lago Agrio negli Stati Uniti. Nulla gli vieta di proseguire nel tentativo di rivalersi sugli asset di Chevron in Canada, Brasile e Argentina (giacché in Ecuador la società non ne ha).

Donziger, da parte sua, rifiuta di essere marchiato per sempre come corruttore ed estorsore, pur ammettendo di avere oltrepassato qualche limite di troppo, e ha già annunciato che tenterà il ricorso, sicuro che anche la Corte di appello americana, come già la giustizia ecuadoriana, gli darà ragione contro una «sentenza oscena» frutto di «un processo viziato». In ogni caso, difficilmente uscirà da questo legal drama hollywoodiano ricoperto di gloria come un Erin Brockovich delle Amazzoni.

Clicca qui per leggere la nostra traduzione di alcuni stralci salienti della sentenza del giudice Kaplan.

Tags: al gorechevronecuadorlago agriolewis kaplanNew Yorknew york timesnew yorkerpetrolioRobert Redfordsteven donzigersundance film festivalwall street journal
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