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Il capolavoro triste di Bergman. E della nostra epoca

Se viviamo in una «società di orfani», molto lo dobbiamo al regista svedese ritenuto sopra i mortali e un pezzo sopra anche al divino (volevo solo prendermela con qualcuno di importantissimo)

Luigi Amicone
18/04/2021 - 5:00
Società
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Una scena di Luci d'inverno, film di Ingmar Bergman
Una scena di “Luci d’inverno”, film di Ingmar Bergman

Cronache dalla quarantena bis / 30

La domenica andando alla Messa può capitare di sentirsi molto grillini. Ma con chi me la prendo che ho esaurito i Buffagni di sinistra e i Buffagni di destra? Cià, perché non distillare qualcosa di greve a quelli che si sentono un gradino sopra Dio? Quelli che vincono l’Orso d’Oro piuttosto che l’Oscar alla migliore interpretazione o sceneggiatura, il premio Nobel per la letteratura, che è tutto un mischione di divi alla Woody Allen, Dario Fo, Roberto Benigni…

E finalmente arriviamo al presente «grande balzo per l’umanità» come ho letto descritto in modo serissimo in un articolo del Corriere della Sera, di due attori famosi che per far fare un «balzo» all’umanità si sono baciati sfidando “l’ultimo tabù”, perdindirindina!, visto che per trovare un Via col vento, oggi come oggi, è come provare a svaligiare la Federal Riserve. Guai a quella vecchia storia lì – vedete che non la nomino nemmeno? – che non siamo mica qui a pettinare gli omofobi.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Qualcuno di importantissimo

Ma dicevo che vorrei prendermela con qualcuno di importantissimo. Un gradino sopra Dio. E dal quale possibilmente discernere le sopradivinità odierne dopo che le divinità rosse e nere e coi baffi han chiuso i battenti. E se adesso vuoi combinare proprio grossi guai devi farti più brutto che puoi e rientrare nelle caverne di diecimila anni fa. Ecco, mentre riflettevo su chi prendermela al di sopra di Dio, mi è saltato fuori sulle labbra un nome: Ingrid Thulin.

E chi sei, mi sono detto, il fantasma di Mia Farrow? E qui mi è testimone il mio confessore don Antonio Villa, al quale ho rivelato come questa Ingrid Thulin con cui mi sono svegliato un bel mattino avendo il suo nome sulle labbra, mi abbia riportato attraverso Wikipedia a un flusso di coscienza – giuro, senza aver preso la sera prima una sola sostanza e avendo scelto da mesi la vocazione dell’astemio – in cima al quale ho finalmente scoperto una delle personalità moderne che da ben sopra l’Olimpo degli dei ha generato delle personalità anch’esse un gradino sopra Dio – non so, ho detto Fo, ma potrei anche nominare Eco, Moravia o viventi qualsiasi del Gruppo Gedi, Rcs e, perché no, perfino del gruppo fratelli Bertolucci o Zingaretti (che questi gemellini ultimi un po’ sopra Dio hanno almeno il vantaggio di essere calvi ma simpatici).

Ingmar un gradino sopra Dio

Dove voglio arrivare? Io da nessuna parte. È questa Thulin che mi ha condotto al suo Pigmalione simbolo di genialità contemporanea. Un certo Bergman. Ingmar Bergman. La Thulin è stata una delle attrici preferite da Bergman in tutti i sensi. Regista appunto ritenuto sopra i mortali e un pezzo sopra anche al divino. Perché? Perché in buona sostanza Bergman si è occupato di Mistero e domande ultime della vita (Il settimo sigillo piuttosto che Il posto delle fragole) e li ha liquidati con grande e radicale scetticismo. Insomma, un po’ meno serio di Berlusconi che ha fatto del bene perfino a tante cosiddette Olgettine. 

Faccio un esempio. Tra le tante donne che ha avuto, Bergman a un certo punto – quarto matrimonio – sposa Käbi Laretei. Una pianista figlia dell’ambasciatore dell’Estonia in Svezia. È il periodo di uno dei suoi film più metafisici. Tratta della crisi di fede di un prete. Siamo solo all’inizio degli anni Sessanta, ma gli svedesi erano già atei (o “un balzo dell’umanità avanti”, diremmo noi oggi). Ed ecco una riflessione ispirata che nasce nel protagonista del film naturalmente come traslato del regista approdato all’esistenzialismo postcristiano, molto contemporaneo, molto a misura delle nostre odierne élite:

«Ammettiamo che Dio non esista, che differenza c’è? La vita diventa comprensibile. Che sollievo! La morte diventa uno spegnimento, un disfacimento dell’anima. La crudeltà degli uomini, la loro solitudine, la loro paura, tutto diviene chiaro, trasparente. L’incomprensibile sofferenza non ha bisogno di spiegazione. Le stelle, il mondo ed i cieli hanno creato se stessi e si sono dati vita a vicenda. Non c’è nessun creatore del mondo».

La critica è unanime nel definire il film un capolavoro. Anche la quarta moglie di Bergman. «Sì, Ingmar è un capolavoro. Ma un capolavoro triste» disse Käbi Laretei. 

L’alibi ideologico per libertinare

Un capolavoro triste. Un po’ come il capolavoro di aver messo al mondo nove figli – di quelli che si conoscono – che il regista svedese (a sua volta figlio di un pastore luterano) ebbe da un po’ di donne che sposò o frequentò durante la fase creativa della sua arte cinematografica. Una di queste, avuta da Liv Ullmann, ha scritto un libro, Unquiet, tradotto anche in Italia.

Chiaro che Bergman, come scrisse a suo tempo Repubblica a proposito di Scene da un matrimonio ha espresso «una delle più spietate requisitorie cinematografiche contro la vita di coppia». Il libertino Bergman si era pure trovato l’alibi ideologico per libertinare. E l’alibi ideologico che è diventato la base della stessa nostra «società di orfani» come l’ha chiamata papa Francesco.

Tant’è, si fotografa in Unquiet una di queste figlie del requisitore anti coppia:

«Ero la figlia di lei e la figlia di lui, ma non la loro figlia: non eravamo mai in tre, quando sfoglio le immagini sulla scrivania non c’è una sola fotografia di noi tre, insieme. Lui, lei, io. Quella costellazione non esiste».

Pesi da scaricare sugli altri

Non so se Bergman fosse comunista e avrebbe anche lui perseguitato la vita troppo giocosa di uno come il Cavaliere che è l’unico imputato in Italia per il quale onesti giornalisti delatori hanno computato e fatto sapere ai giudici che se non lo condannavano in fretta rischiava la prescrizione. L’unico, tra milioni di processi rinviati che per casi veramente risibili – tipo Ruby che chissà quante volte sarà capitato al grande Bergman –, che ha sempre avuto il suo binario processuale senza ostacoli e udienze aggiornate di settimana in settimana.

Eh sì, giustizia ha funzionato con Berlusconi. L’ultimo don Giovanni di un capolavoro mozartiano. Dopo di lui si stabiliranno definitivamente i figli di un moralismo un gradino sopra Dio che faranno portare agli altri i pesi che non portano loro. È il modello di questo precursore di Bergman, cinismo vagabondo, scetticismo radicale. Il trionfo della musica dissonante che si fa clima anche nel nostro Mediterraneo. Direbbe il Poeta, come «l’aria dei mari temperati è trafitta dal fiato immobile e morto della Corrente Artica». Un gradino sopra Dio, la nostra è diventata stabilmente l’epoca del capolavoro triste.

Tags: ateismoCinemaFamigliafigliIngmar BergmanSilvio Berlusconi
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