Cronache dalla quarantena / 29
Se non fossimo tuoi o Cristo, e se Cristo non fosse davvero risorto, saremmo come un bue qualsiasi o come un eucalipto qualunque. Saremmo pongo sotto le mani del soldo. E plastilina modellata dall’Inps. Io non sentirei neanche me stesso. Figuratevi se potrei sentire tutti e ciascuno dei miei colleghi in Comune e perfino la mia famiglia come parte di una storia immortale. E soprattutto non potrei sentirmi parte io stesso, isolato che mi sviluppo in isolamento per gli anni a seguire e per vedere poi nient’altro che la mia carne morire (cammina e cammina, le gambe fiaccano, l’osso si incricca, il viso si sflaccida, la panza cresce e sordi si diventa ben prima nella testa che nella mutanda).
La Pasqua, finalmente, non è un puntolino di candela che isola un avvio d’anno sfortunato, per cui un amico mi scrive con annessa fotografia di uno spettacoloso tramonto: «Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta. Buona Pasqua». Ma vattinne profeta Gibran, direbbe Zalone. Che ti è successo Mario? Ti batte il karma pure a te?
Non è un punticino di ossigeno e costine di agnello, Pasqua. O perlomeno non solo questo. Ti sei accorto che se compare un virus altamente sociale, e distrugge la vita sociale, come fino al 28 febbraio dell’anno bisestile venti-venti mai e poi mai potevamo lontanamente immaginare, capisci che può accadere – sì può accadere – che domani qualcosa impedisca al sole di sorgere, e che domani noi si entri nella notte più buia?
Il problema è semmai quello di non farsi trovare impediti e bui dagli impedimenti e dal buio che verrà – e verrà di sicuro, forse già viene. Poiché impedimento e buio sono il perimetro e la profondità dell’universo. E noi che sondiamo quel perimetro e quelle profondità, eccoci tutti riuniti nell’afflizione del pusillanime, trafitti, disabilitati e disabitati in tutte le città scientificamente avanzate della terra, a causa di un virus così infinitesimale – e così elementare – che al suo cospetto un batterio è dio.
Perciò questa è precisamente l’incredibile Pasqua: «Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede». Se Cristo non fosse qui, vano sarebbe il nostro abitare – se solo ti guardi indietro – lo spazio di un’esistenza lunga un mattino.
Provo a dirlo? Ma con le mie parole? Ok ci provo. Se come capita a tutti (è capitato a me l’altro giorno in neanche un amen di minuti, scambiando con Fabio due whatsapp che incideremo sui nostri rispettivi carri funebri) di risentire un amico al quale capisci che non tu ma un imperativo divino ti ha legato per sempre. E se un incontro ti ha segnato anche come una coltellata ma alla fine ha mostrato che non capita nulla nella vita che non sia per un bene più grande, come mi ha ricordato qualcuno dei Promessi Sposi. Se Bruno è finalmente a casa a Genova, alla mia stessa bella età, casa da cui era partito per fare la banda Bonnot cinquant’anni fa e ritornare a casa solo adesso, stando in carcere sempre e qualche mese fuori, ma da evaso, ed è trascorso ormai quasi mezzo secolo, una vita. Se avevamo venticinque anni di meno quando ci siamo incontrati e il resto della vita non è stata affatto facile, però che genio don Giussani che ci ha introdotto al problema di Cristo in un modo indimenticabile anche se tutti lo avessero dimenticato. Così che la traduzione di Cristo, Pasqua di Resurrezione, il Bruno, il Tuti e tanti altri che forse se lo sono dimenticati ma anche no – ehi ehi, mai mai, mi farebbe eco un galeotto spiaccicatore di uomini – Cristo, Pasqua, Resurrezione, sono per tutti noi sinonimo di “Invincibile compagnia” secondo Giussani.
Lo chiarisco con don Giussani medesimo, che forse è meglio. Vero Carmen? Nel momento di attacco razionale, nel momento in cui egli attacca con la ragione, cioè accoglie (che se non fosse per la ragione mi pare che l’accoglienza sarebbe un suicidio) la “Professione” di alcuni Memores Domini (praticamente monaci e monache laici), don Giussani così esordisce (in un discorso che pensate un po’, è diventato un piccolo saggio in Le mie letture, Rizzoli, capitolo 5, “La forma dell’io: Dante e san Paolo”):
«Questo nostro popolo, questa Chiesa, questa compagnia per cui vale l’alzarsi, il mangiare, l’andare a lavorare, il chiedere, il pregare, il riposare, il parlare, il giocare, l’addolorarsi e il gioire – questa compagnia vale tutto questo, perché altrimenti l’“io” sarebbe una nota gridata nel vuoto del tempo –, questo popolo da cui trae significato la mia azione è “uno”: è un “uno” misterioso, è corpo misterioso di Cristo, misterioso, ma di Cristo. Questo eis, questo “uno” di cui parla san Paolo, è Cristo ed è “uno” che si compie in tutti gli “io”, in tutte le persone che il Padre gli dà nelle mani e che, mettendole nelle Sue mani, unisce una all’altra facendole diventare una cosa sola. È “uno”: io amo Cristo nella compagnia. Solo dalla compagnia e nella compagnia io posso dire: “Ti amo, Cristo”. Io, attraverso la testimonianza da dentro la vita normale, vivendo la vita normale nella coscienza d’appartenere a Cristo e, quindi, nella coscienza di essere un popolo, una compagnia, non vivo la mia vita normale come “io”: vivo la mia vita normale come compagnia. Poiché questo può essere realizzato solo in Cristo, allora la mia vita normale, vissuta nella compagnia, è testimonianza di Cristo. “Tu l’unico, Tu che segui il cuore e che proteggi le/ radici della nostra crescita –/ Tu nella moltitudine delle parole hai portato unità”, così dice una poesia del Papa».
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