
Hector, 31 anni a voler bene a suo figlio Cito

Ha scritto il Fatto Quotidiano che «a volte è capitato che dagli occhi di Ignazio scendessero delle lacrime, facendo sperare nel miracolo, che non è mai avvenuto». Ma la vicenda dell’uomo deceduto venerdì scorso dopo 31 anni di coma, al cui epilogo tutti i giornali stanno danno grande risalto, racconta molto altro.
LO SCHIANTO E LA SECONDA VITA DI CITO
Ignazio Okamoto – «31 anni in stato vegetativo», «attaccato a una macchina», «immobile per tre decenni» – aveva 23 anni la notte tra il 19 e il 20 marzo 1988, quando la Golf su cui viaggiava con altri amici bresciani esce di strada sulla A22 all’altezza di Nogarole Rocca. Uno schianto terribile, il 22enne Nicola Luigi Mori perde la vita, Ignazio viene ricoverato in ospedale in coma.
Quella notte è la festa del papà, ed è il papà Hector, messicano di origini giapponesi, a caricarsi il suo “Cito” (così veniva chiamato da tutti Ignazio) sul groppone come avrà fatto tante volte quando era bambino, a lasciare il suo lavoro e seguirlo, giorno per giorno, tra le quattro mura di casa a Collebeato (Bs): lo ha raccontato sua moglie Marina, madre di Ignazio e di Fabio, al Giornale di Brescia: «Per 31 anni ci siamo isolati dal mondo. Ora non sarà facile rendersi conto che non c’è più».
LACRIME DA ASCIUGARE
Eppure niente di questi 31 anni è stato vissuto in sordità o solitudine: c’erano i riti quotidiani, lacrime da asciugare, un corpo da lavare, da alimentare con la peg (la “macchina”), una compagnia da “fare” a Cito, perché nessuno stato vegetativo strappa un padre e una madre dal miracolo della paternità e della maternità, perché “immobile” non significa “spento”, perché anche se preparati al peggio da 31 anni – fin da subito nel centro specializzato dell’ospedale di Parma «ci hanno detto che non si sarebbe più svegliato» – «mai abbiamo pensato all’interruzione delle terapie e al fine vita».
UN PADRE COI GUANTONI DA BASEBALL
Come si sarebbe curato un trauma cranico, una emorragia cerebrale, una esistenza muta appesa al battito del cuore? Tutto quello che ci voleva era «un amore inimmaginabile», così gli amici di Cito hanno raccontato quello semplice e paziente di papà Hector, a sua volta amatissimo dagli amici del figlio: «Aveva portato da un viaggio i guantoni e all’epoca nel cortile di casa di via Corsica noi bambini avevamo iniziato a giocare». Anche la mattina dell’incidente la squadra nata al Cus di Brescia da quei tiri in via Corsica avrebbe dovuto disputare una partita a Piacenza. Poi la notizia che li lascia tutti muti, Nicola è morto, Ignazio è in coma. Viene trasferito a Lonato sul Garda, dove sorge una struttura che lo ospita per due anni. Poi la decisione del padre, lasciare il lavoro per occuparsi lui di Cito: «Era necessario, non potevamo assumere infermiere e abbiamo scelto di non lasciarlo in una struttura. E poi vuole mettere l’assistenza di un padre, dei genitori!», ha raccontato Hector in una bellissima intervista al Corriere.
TRENTUN ANNI A VOLER BENE A CITO
Così, nel 1990, quest’uomo addetto a determinare il sesso dei pulcini si licenzia, Marina cambia lavoro, lei a portare un po’ di soldi, lui a casa ad armeggiare col sondino (Cito riusciva a deglutire, «ce ne siamo accorti in ospedale e rischiando abbiamo firmato per togliergli la tracheotomia») e l’igiene, a fare fronte a polmoniti e piaghette, ma soprattutto a voler bene a Ignazio. «Anni fa sono tornato in Messico una settimana per il matrimonio di un parente. Quando sono tornato mio figlio era bianchissimo, quasi di colore verde. Sono convinto che pensasse di essere stato abbandonato. È bastato stare con lui per pochi giorni ed è tornato quello di prima», ha raccontato Hector alla Stampa.
«MAI PENSATO DI STACCARE LA SPINA»
«Non ha mai pensato di staccare la spina?», è la domanda più rivolta a questo papà diventato cuoco, infermiere e anche fisioterapista per suo figlio. «Mai preso in considerazione scelte diverse. Interrompere le terapie? No, mai avuto dubbi», è la risposta di chi l’ha voluto accudire a casa con l’aiuto della Caritas, dei volontari, degli amici dove «segni di reazione ne ha sempre avuti. All’inizio lo pregavo di non piangere, gli dicevo “Ignazio, ho bisogno che tu sia coraggioso” e lo è stato». Come quando aveva iniziato a vendere fotocopiatrici porta a porta perché voleva iscriversi a Economia e Commercio («ma gli dissi che doveva pagarsi gli studi: io non potevo permettermelo»), come quando trascinava compagni e amici, come quando sembrava mostrare un sorriso al padre indaffarato a caricarsi sul groppone ogni brandello di quell’incidente.
PIÙ BATTITI, MENO DIBATTITI
Ogni brandello, anche la sofferenza di Alessandro, il ragazzo alla guida della Golf: «Anche lui ha sofferto tantissimo. Quando uscivano capitava che guidasse anche mio figlio, avrebbe potuto succedere il contrario», ha spiegato ancora al Corriere Hector. Cito è stato sepolto con la maglia della squadra bresciana di baseball, dopo che il suo cuore si è improvvisamente fermato. Meno dibattiti e più battiti, invocava Giovanni Testori: ed è questa la storia di Ignazio Okamoto. Il ragazzo caricato, senza alcun dubbio, dispute e contese ma con la sola forza di un amore inimmaginabile, sul groppone di suo padre.
Foto Ansa
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