«Si dice “in tempo di guerra le muse tacciono”. Le muse possono anche tacere, ma noi, cristiani, noi essere umani non abbiamo il diritto di stare zitti. In questi minuti, quando si sparge il sangue sulla terra ucraina, quando si ripetono le parole del patriarca Josvf delle “montagne di cadaveri e fiumi di sangue”, in tutte le nostre città, lungo tutte le rive del nostro bellissimo fiume Dnipro – dal confine bielorusso attraverso Kyiv e fino al Mar Nero – nessuno ha diritto di stare zitto. Perché la parola può salvare la vita. Mentre il silenzio può uccidere». (Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, 26 febbraio, 2022)
Secondo il celebre teorico dello scontro delle civiltà, Samuel Huntington, il rapporto tra Russia e Ucraina «sta all’Europa orientale come il rapporto franco-tedesco sta all’Europa occidentale. Così come il secondo costituisce il nerbo dell’Unione Europea, il primo è il nerbo indispensabile per l’unità del mondo ortodosso». E potremmo continuare il paragone affermando che, come la pacificazione del primo ha permesso l’edificazione e l’integrazione del “polmone” occidentale dell’Europa, la violenta aggressione di Mosca a Kiev minaccia il collasso del “polmone” orientale – con lo strascico delle centinaia di migliaia di profughi che già hanno oltrepassato le frontiere di Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania.
Eppure, accanto ai comprensibili timori di una deflagrazione su scala globale della guerra iniziata da Putin, e alla paura per l’effetto domino che la mobilitazione delle forze Nato sul versante est dell’alleanza suscita in molti, la posta in gioco di quanto sta accadendo in questi giorni appare essere ben più alta. È, infatti, in questione il senso stesso dell’Europa, il senso stesso di una civiltà.
Il mondo è cambiato dal 1989 e l’ordine che pensavamo unipolare non lo è più. Non che l’inizio del XXI secolo, con l’irrompere del terrorismo islamico, non si fosse incaricato di mostrarci un’alternativa fanatica al nostro way of life, drammaticamente rappresentata dalla sfida lanciataci da Al Qaeda: «Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita». Non che dieci anni della peggior crisi economica di sempre non avessero già mostrato i limiti di un sistema che valuta i paesi esclusivamente in base alle loro capacità di aderire a parametri puramente tecnici (pur importanti per un responsabile mantenimento dei conti di uno stato). Eppure lo slogan “It’s the economy, stupid!”, con cui il democratico Clinton vinse le prime presidenziali dopo la caduta del muro di Berlino, rimane il nostro comune approccio alla lettura della realtà contemporanea, convinti come siamo che tutto sia riducibile a consumi e modelli econometrici. Il mondo invece è tornato ad essere multipolare. Le guerre di faglia tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà minano alla radice l’impostazione ideologica che ha governato la globalizzazione negli ultimi decenni, secondo cui il benessere economico avrebbe condotto ad una sorta di stato mondiale omogeneo, che non può non attuarsi che come imposizione di un pensiero unico (si pensi solo alla retorica sui cosiddetti nuovi diritti, sconnessi da qualunque dovere e che per questo promuovono un’idea di individuo solo, sciolto da ogni tipo di legame con gli altri e per questo in balìa del potere). L’ambizione russa di un’egemonia in quel blocco eurasiatico che una volta era l’impero sovietico, o quella cinese di inglobare in sé un’area sinica (di cui Hong Kong ha rappresentato l’ultimo tassello e, con molta probabilità, Taiwan ne costituirà il prossimo), mostrano drammaticamente quanto il genio di Havel fosse stato profetico: la civiltà globale «non è altro che un sottile strato di vernice», che «copre o nasconde l’immensa varietà di culture, di popoli, di mondi religiosi, di tradizioni storiche e di secolari atteggiamenti brulicanti “al di sotto” di esso».
L’Europa è già essa stessa un esperimento di convivenza tra popoli latini, slavi e germanici, erede del pensiero greco e del diritto romano a mezzo della sintesi operata dal Medioevo cristiano. Qual è allora il compito affidatole oggi, che da oriente a occidente rischia sempre più di essere un vaso di coccio in mezzo ad altri di ferro? All’Europa, che ha provato su di sé la ferocia dei totalitarismi come esempio di un potere che riduce gli uomini in schiavitù, non spetta accrescere la potenza della tecnica, della finanza, la potenza militare o della scienza. All’Europa spetta essere la voce critica di quella potenza, nella sollecitudine per l’umanità dell’uomo. All’Europa spetta attaccare al cuore ogni pretesa dispotica con qualcosa di più forte delle sue idee ispirate al politically correct, che a loro volta rischiano di trasformare le nostre democrazie in un “totalitarismo morbido” con l’esclusione dalla sfera pubblica di determinate espressioni culturali e religiose. Da questo punto di vista il mix di cancel culture e reazioni irrazionali alla guerra di Putin, che hanno portato anche solo a ipotizzare la censura in un ateneo di Dostoevskij, o la richiesta di abbattimento della sua statua a Firenze, sono davvero preoccupanti.
È allora con rinnovata consapevolezza che, di fronte al dramma che si sta consumando in Ucraina, torniamo a leggere quanto contenuto in “La vera Europa. Identità e missione” di Joseph Ratzinger: «Il dramma morale, la decisione per il bene o per il male, comincia dallo sguardo, dalla scelta di guardare il volto dell’altro o meno»; quel volto sempre «carico di un appello alla mia libertà, perché lo accolga e ne prenda cura, perché affermi il suo valore in sé stesso e non nella misura in cui viene a coincidere con un mio interesse». E la scelta di guardare – dice ancora il papa emerito – «decide della mia stessa dignità». Tuttavia anche la morale è destinata a non reggere, se non «vive sempre inscritta in un più ampio orizzonte religioso, che ne costituisce il respiro e l’àmbito vitale», tanto che «il cristianesimo è la memoria dello sguardo di amore del Signore sull’uomo». Ecco perché ci ha riempito di commozione vedere quello che a tutti gli effetti è altresì un capo di Stato uscire dalle mura leonine e a bordo di un’utilitaria dirigersi contro ogni cerimoniale nella sede dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede. Francesco, che si è offerto quale mediatore, è anche lui testimone di quello sguardo di amore sull’uomo, non visto solo come “aggressore” e “nemico”. Quello sguardo che permise a Giovanni Paolo II, in visita a Kiev nel giugno 2001, di rispondere ai timori espressi da parte russo-ortodossa per una ripresa di proselitismo “romano”: «Mentre chiediamo perdono per gli errori commessi nel passato antico e recente, assicuriamo a nostra volta il perdono per i torti subiti». Solo da un simile sguardo rivolto all’altro è possibile una vera riconciliazione e quindi una pace. Nell’abbandono o, peggio, nel disprezzo della memoria dello sguardo di amore del Signore sull’uomo, l’Europa smarrisce sé stessa. E perde per strada anche l’unico vero contributo che può dare al resto del mondo, altrimenti incastrato nelle strette logiche dello scontro delle civiltà.