
«L’Italia può reggere alla crisi del gas. La transizione energetica non si fa con gli slogan ma con le aziende»

«Più che di una crisi di governo in piena estate e di un voto anticipato a settembre, l’Italia aveva bisogno di proseguire senza intoppi nella lotta alla pandemia, tutt’altro che debellata, di lavorare per non perdere le risorse del Pnrr e per fronteggiare la difficile congiuntura internazionale, come fatto in questi mesi. Ma naturalmente industriali e imprenditori sanno affrontare sempre qualsiasi situazione e così faranno anche questa volta». A parlare è Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, presidente e ad di Duferco Italia Holding e che già aveva già guidato la sezione dei siderurgici di Confindustria dal 2012 al 2018. Gozzi è stato richiamato alla guida dell’associazione per il biennio 2022-2024 e se ha accettato è innanzitutto per senso di responsabilità di fronte agli attuali scenari di emergenza, non soltanto quella energetica.
Presidente, l’hanno richiamata alla guida di Federacciai in un momento tutt’altro che banale. Cosa l’ha spinta a rimettersi in gioco?
Ho accettato di fronte alla richiesta unanime dei soci. So bene che le rielezioni sono sempre qualcosa di delicato, ma ho affrontato tutto questo con molta prudenza e umiltà. Credo che la mia lunga esperienza nonché le competenze specifiche in materia energetica siano state viste come un valore aggiunto per guidare l’associazione in un momento così delicato.
Il conflitto russo-ucraino e le decisioni di politica energetica del Cremlino sulle forniture di gas in risposta alle sanzioni dell’Occidente la preoccupano?
A mio avviso il tema centrale resta quello del caro energia, e cioè il caro gas, che ha un’unica spiegazione ed è geopolitica: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. In realtà, però, è da ancor prima dell’invasione russa che il governo di Mosca già agiva sui prezzi e volumi delle forniture di gas. È dal giugno scorso, infatti, che si sono iniziate a registrare rarefazioni del gas messo a disposizione sui mercati giornalieri o cosiddetti spot, con conseguenti rincari dei prezzi. Soltanto che, allora, i contratti take or pay erano ancora rispettati, oggi non più. È in quel momento che i prezzi hanno iniziato a crescere, una situazione che poi è esplosa con la guerra. Il problema è che la guerra è un fattore meta-economico e dunque è difficile fare previsioni.

Lei ha spiegato però che l’economia italiana non potrà fare a meno del gas russo prima di due o tre anni. Come prepararsi?
Credo che il piano di sostituzione del gas russo messo a punto dal governo Draghi sia stata una delle migliori cose fatte da questo esecutivo, grazie anche al lavoro dei ministri Cingolani e Di Maio, ma soprattutto grazie alle relazioni dell’Eni nel continente africano. È un piano molto importante perché potrebbe addirittura consentire all’Italia, che è la seconda nazione più industriale d’Europa, di evitare i razionamenti, se si rispettano determinate condizioni quali, per esempio, un certo grado di abbassamento delle temperature nelle abitazioni, il proseguimento del funzionamento a pieno regime delle centrali a olio e a carbone e un po’ di ricorso agli stoccaggi strategici. L’industria italiana, comunque, si sta preparando anche all’ipotesi dei razionamenti, perché è sempre bene farsi trovare pronti anche nel caso di un worst scenario. Ipotesi in cui sarà fondamentale – e lo stiamo facendo presente al governo – mettere in campo una programmazione ordinata e organizzata a beneficio in primis delle aziende.
Che tipo di contributo è legittimo attendersi dalle altre fonti di approvvigionamento energetico?
Il prezzo dell’energia elettrica ormai è una derivata prima di quello del gas e questo dipende dal fatto che, purtroppo, la componente maggioritaria nella produzione elettrica italiana, almeno per ora, è quella delle centrali turbogas. Bisogna dunque lavorare per un vero decoupling, cioè per un assetto di mercato in cui i costi dell’energia elettrica prodotta con le rinnovabili determinino, almeno per quella quota parte, prezzi diversi. Oggi invece anche le energie rinnovabili vengono vendute ai prezzi delle turbogas e ciò non contribuisce certo a tenere bassi i prezzi. Senza dimenticare, poi, che le rinnovabili, il vento, il sole, non sono, per definizione, programmabili, mentre i sistemi industriali hanno bisogno di forniture stabili nel tempo. Anche la strategia degli accumuli è molto lontana dall’essere una soluzione del problema; andranno fatti gli accumuli, e infatti, in parte, si comincia a farli, ma non saranno mai sufficienti. L’industria – lo ripeto – ha bisogno di una fornitura di energia stabile nel tempo. In questo senso, bene le turbogas, le rinnovabili e gli accumuli, ma ci sono anche soluzioni come i biocombustibili, il biometano, e la carbon capture per quei processi che, invece, non possono essere modificati. Credo anche che la riflessione sul nucleare di quarta generazione, e in prospettiva sul nucleare da fusione, debba essere ripresa: ci sono importanti novità e non è giusto scontare ancora le conseguenze del fatto che aver messo al bando il nucleare abbia messo al bando, di fatto, anche la ricerca su di esso.
L’Italia ha bisogno di un cambio di paradigma sull’energia?
Occorre un armamentario di soluzioni pragmatiche, non ideologiche, perché – non mi stancherò mai di ripeterlo – la transizione energetica non si fa con gli slogan, ma con l’innovazione tecnologica. E dunque, in definitiva, con le imprese, che sono le vere protagoniste dei processi di decarbonizzazione e che stanno già lavorando seriamente agli obiettivi europei del 2030, a partire dalla siderurgia e con essa tutte le imprese dei cosiddetti comparti hard to abate in prima linea a partire dagli investimenti per l’innovazione.
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