
Ilva. Un paese a ferro e fuoco

Quella dell’Ilva è la storia di una tragedia italiana. Tanto è stato fatto per distruggerla che, temo, alla fine morirà davvero. Sono ormai sette anni che cerco in ogni modo di difendere uno dei più importanti presidi industriali del Paese da un accanimento che sembra non avere requie. Gli avvenimenti degli ultimi mesi, che non saprei se definire tragici o grotteschi, mi confermano in questo giudizio: se una cosa sbagliata poteva essere fatta sull’Ilva, questa è stata fatta. Ed è stata fatta in nome del pressapochismo, dell’incompetenza, del giustizialismo e dell’ideologia anti-industriale che sta affondando questo paese. Sull’Ilva è stato detto e scritto moltissimo, spesso a sproposito, senza che nessuno mai all’interno del governo volesse o potesse rispondere all’unica domanda fondamentale di tutta questa storia: cosa vuole fare l’Italia a Taranto? Vuole avere lì ancora una siderurgia e, se sì, di quale tipo e dimensione?
Sono l’amministratore delegato del gruppo Duferco, grande trader internazionale di acciaio e, lo dico perché il lettore ne sia edotto, non ho alcun interesse sull’Ilva, anzi, a dirla tutta, avrei tutto l’interesse che le cose a Taranto non vadano per il verso giusto. Ma da quando sono diventato il presidente di Federacciai, estate 2012, qualche settimana prima che la magistratura tarantina sequestrasse l’area a caldo e arrestasse alcuni membri della famiglia Riva, il gruppo proprietario dell’Ilva (quando si dice la fortuna…), non ho mai smesso di lottare per difendere quello che ritengo un patrimonio importante non solo per Taranto e la Puglia, ma per l’intero paese.
L’Ilva di Taranto è il più grande impianto siderurgico d’Europa, una ricchezza nazionale non solo per i 16-17 mila dipendenti che ruotano attorno in un modo o nell’altro allo stabilimento, ma per tutta la nostra economia. L’Ilva vale l’1 – 1,5 per cento del Pil nazionale e i suoi clienti sono parte integrante del tessuto industriale del Nord, perché la trasformazione è tutta qui. La sua chiusura sarebbe un disastro per la filiera della trasformazione del metallo e faremmo la fortuna di tutti gli altri paesi europei e dell’oligopolio siderurgico in generale. Se l’Ilva chiudesse, svanirebbero in un colpo solo almeno 6 milioni di tonnellate di acciaio e tutti i costi sociali di questo stravolgimento dovrebbero pagarli solo i contribuenti italiani. I nostri partner europei stapperebbero bottiglie di champagne.
Ancora oggi sono convinto che quanto accadde in quell’estate fu all’origine del disastro odierno. La Procura della Repubblica si mosse in base a un teorema, i giornali fecero da grancassa a ideologie anti-industriali e anti-sviluppiste, alcuni politici costruirono la loro carriera e le loro fortune in base a loro convenienze. Resta una macchia indelebile sulla reputazione giuridica internazionale del Paese l’esproprio senza indennizzo (un vero obbrobrio) subito dal Gruppo Riva che, per quel che mi riguarda, ritengo essere delle persone perbene e dei bravi imprenditori. Vista la leggenda nera che si è diffusa su di loro, capisco bene che queste mie parole possano urtare qualcuno, ma se i numeri sono numeri, invito a riflettere su un fatto oggettivo: nei cinque anni scellerati di amministrazione straordinaria i commissari hanno disintegrato quattro miliardi di euro, che era il patrimonio netto di Ilva quando fu sequestrata al Gruppo Riva, e questi stessi commissari, che di siderurgia hanno dimostrato di sapere poco, non sono riusciti a fare più di tanto sul piano del risanamento ambientale. Quando c’era il gruppo siderurgico, l’acciaieria marciava a passo spedito, producendo anche 10 milioni di tonnellate annue. È giusto ricordare inoltre che, negli ultimi 45 anni, l’Ilva è stata gestita dai privati (Gruppo Riva) per 15 e dallo Stato italiano per 30. Le responsabilità andrebbero dunque ripartite.
Senza tutela legale, non si fa una buca
L’ultimo harakiri riguarda ArcelorMittal, il gruppo siderurgico più grande al mondo, un vero colosso che è stato trattato in malo modo dallo Stato italiano. Beninteso, ArcelorMittal si muove secondo propri interessi e convenienze, non sto dicendo che sono le dame della San Vincenzo. Ma resta il fatto che se lo Stato italiano, dopo mesi e mesi di analisi, stesure e ri-stesure di un complesso contratto che impegna il colosso siderurgico a un piano ambientale, industriale e occupazionale, poi, ad un certo punto, cambia le carte in tavola e viene meno alla parola data, come si può pensare che tutto questo non abbia conseguenze? Si arrabbierebbero le dame della San Vincenzo, figuratevi ArcelorMittal.
Quel contratto prevedeva un piano industriale, un piano ambientale (il più rigoroso mai visto al mondo!), un piano occupazionale e quattro miliardi di investimenti! Il cuore del contratto era la possibilità per ArcelorMittal di continuare a produrre acciaio con il cosiddetto “ciclo integrale” (altiforni, cokeria e sinter), a condizione della realizzazione entro un periodo di tre anni di tutti gli interventi di risanamento ambientale. E poi c’era quello che, erroneamente, è stato definito “lo scudo” e che in realtà era una norma di tutela legale di amministratori e manager di ArcelorMittal rispetto a reati ambientali eventualmente commessi da altri prima del loro arrivo. Diciamolo chiaramente e senza infingimenti: una norma sacrosanta senza la quale non solo ArcelorMittal, ma chiunque non potrebbe fare nulla, ma proprio nulla, letteralmente nemmeno una buca, sul terreno dell’Ilva. Pena: rischiare di essere accusato di malefatte commesse da altri (e, visto come vanno le cose in Italia, questa cosa non è “probabile”, ma “sicura”). Non è un caso, infatti, che di tale tutela abbiano goduto tutti i commissari che si sono dovuti occupare di Ilva.
Persino Luigi Di Maio, in qualità di ministro dello Sviluppo economico, pur provenendo da un partito che ha fatto della decrescita felice il suo mantra e che in campagna elettorale ne aveva proposto la chiusura (ricordo bene quando Beppe Grillo diceva di trasformarla in un luna park), si dovette “piegare alla realtà” e riconoscere che quel contratto con Mittal, date le condizioni, era il miglior compromesso possibile, tutela legale inclusa.
La confusione del “sentito dire”
Trascorso un anno, mentre Mittal proseguiva nel suo impegno di attuare il piano ambientale con interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli impianti, il governo ha cambiato idea e ha eliminato la tutela. Una cosa, come abbiamo detto, inaccettabile. E siamo ai giorni nostri con i tentativi ora del governo di mettere una pezza al disastro, ma su questo sospendo il giudizio, non avendo la sfera di cristallo e non potendo sapere, oggi, cosa accadrà nelle prossime settimane, quando questo articolo sarà nelle mani di chi legge. Davvero spero che una soluzione si possa ancora trovare. Se però devo fare affidamento su quello che sento in tv e leggo sui giornali, mi prende lo sconforto. C’è gente che parla di fare l’acciaio con il gas, chiudere la linea a caldo, mettere dei forni elettrici al posto degli altiforni e via blaterando. È la fiera dell’improvvisazione e di chi dà aria alla bocca in base ad un “sentito dire”. Risultato? La confusione più totale.
Per questo, ho già avuto modo di mettere in fila quattro punti che qui ripresento perché credo sia importante per tutti, innanzitutto, fare chiarezza. “Conoscere per deliberare”, diceva Einaudi e nel marasma che si muove intorno all’Ilva oggi la chiarezza è merce rara.
Che competenze ha lo Stato?
Ecco dunque i quattro punti necessari da conoscere per evitare di credere alle tante fake news che circolano intorno allo stabilimento di Taranto:
– Non è vero che non si può produrre acciaio da ciclo integrale (cioè da altoforno) senza inquinare gravemente il territorio circostante e le persone che ci vivono. In tutti i paesi europei occidentali, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania all’Austria, al Belgio, all’Olanda e all’Inghilterra, ci sono impianti a ciclo integrato come quello di Taranto che convivono con territori abitati senza provocare danni. Non è credibile che la sensibilità ambientale delle popolazioni di quei paesi sia inferiore a quella italiana.
L’unico punto di differenza è che quegli impianti hanno avuto continui interventi di manutenzione e migliorie tecniche, mentre Taranto dall’uscita dei Riva (luglio 2012) non ha avuto sino all’arrivo di Mittal significativi investimenti ambientali. Le tecnologie disponibili consentono di mettere sotto controllo con altissimi risultati i due impianti più impattanti, e cioè cokeria e agglomerato (sinter), gli altiforni non inquinano. Basta andare a Linz, in Austria, per vedere cosa è possibile fare su un impianto a ciclo integrale con investimenti e grande cura: noi lo chiamiamo Disneyland!
– Non è vero che si può produrre l’acciaio con il gas. Al massimo con il gas si può produrre carica metallica (92/93 per cento di Fe) da mettere nei forni elettrici. Peccato che questi impianti che si chiamano Dri (Direct Reduction Iron) costino una fortuna e vengano realizzati soltanto in paesi dove il gas non costa niente (Algeria, Libia, Qatar, Venezuela, ecc). In Europa non ne esiste nessuno tranne uno vecchissimo di Mittal, utilizzato pochissimo per ragioni di costi.
– Taranto senza una filiera integrata (altiforni, laminati, verticalizzazioni) non ha senso perché alimentare i laminatoi con semiprodotti (bramme) acquistati da fuori è economicamente impossibile. Chi dice di chiudere l’area a caldo in realtà vuole chiudere tutto lo stabilimento. È circolata la voce che ArcelorMittal vorrebbe tenersi i laminatoi e lasciare l’area a caldo allo Stato perché si occupi della sua manutenzione straordinaria ed ambientalizzazione per poi eventualmente riprenderla dopo. Questo spiegherebbe gli esuberi di 4/5mila persone. Tanti sono gli occupati nell’area a caldo. La proposta, se davvero è stata fatta, è inaccettabile. Che competenze ha lo Stato per rifare altiforni e mettere le mani su cokerie e sinter? A chi venderebbe lo Stato le bramme prodotte dell’area a caldo? A Mittal? E a che prezzo?
– Certamente si possono installare forni elettrici per sostituire almeno parzialmente gli altiforni. Anche qui c’è qualche problema, però. Bisogna trovare il rottame per alimentare i forni elettrici e in Italia ce n’è poco e ne importiamo molto, il che significa che una grossa domanda aggiuntiva come quella di Taranto rischierebbe di far esplodere i prezzi del rottame stesso, danneggiando sia la competitività dell’acciaio di Taranto sia quella dei forni elettrici della siderurgia del Nord Italia. Inoltre, non tutto l’acciaio attualmente richiesto dal mercato può essere prodotto da forni elettrico; per taluni utilizzi l’acciaio prodotto con il ciclo integrale è insostituibile.
Enorme distruzione di ricchezza
Un’ultima questione. Io penso che ognuno debba fare il suo mestiere: gli imprenditori facciano crescere le loro aziende, i magistrati indaghino su eventuali malefatte, i politici si diano da fare per favorire lo sviluppo e la crescita di questo paese. La confusione dei ruoli e l’ingerenza di alcuni nei campi altrui ha generato la situazione attuale. Con tutto il rispetto per i magistrati, non posso tacere il fatto che alcuni di loro hanno preteso di fare politica industriale. Quali siano le norme ambientali da rispettare o come far funzionare gli impianti, non può essere una decisione di loro competenza, ma della Pubblica amministrazione.
Come ho già avuto modo di dire, ho ancora negli occhi l’enorme distruzione di ricchezza rappresentata da centinaia di migliaia di tonnellate di coils sequestrati come “corpo del reato” e lasciati per mesi ad arrugginire e marcire sulle banchine dell’Ilva.
Voi investireste qui?
In quale altro paese del mondo si fa una legge per attuare un commissariamento ambientale (che non esiste nell’ordinamento giuridico) di due anni e poi in quei due anni si fa fallire l’azienda per ottenere l’esproprio senza indennizzo?
In quale altro paese del mondo una procura come quella di Taranto viene stigmatizzata dalla Corte costituzionale per aver impugnato un decreto governativo e poi si spinge a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva e riceve in risposta dall’Alta corte la cancellazione «senza rinvio» del provvedimento, perché «abnorme» e «fuori dall’ordinamento»?
In quale altro paese del mondo una Regione e un Comune ricorrono al Tar contro l’Aia del governo, discettano di decarbonizzazione, che prevede l’impiego di grandi quantità di gas, e poi impediscono la realizzazione del Tap (il Gasdotto trans-Adriatico che permette l’afflusso di gas naturale in Italia dall’area del Mar Caspio, ndr)?
In quale altro paese al mondo si è arrivati al paradosso per cui, se ArcelorMittal non spegneva l’altoforno numero 2, la procura di Taranto poteva avviare un’indagine; se, però, lo spegneva, l’indagine l’avviava la procura di Milano?
In quale altro paese al mondo, per non farci mancare nulla, un’associazione di consumatori avrebbe mai potuto chiedere di arrestare i dirigenti di ArcelorMittal, mettendo sotto sequestro i beni dell’azienda e bloccando i contratti in corso in Italia e pignorando i crediti presso i contraenti? E tutto questo a proposito di certezza del diritto.
Mettetevi nei panni di un imprenditore straniero: voi verreste a investire in Italia?
Foto Ansa
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