«Gli islamisti Fulani hanno distrutto le nostre vite. Non la nostra fede»

Di Open Doors International
14 Gennaio 2021
In una notte i Fulani le hanno devastato la casa, la famiglia, l’intero villaggio. La tragedia di Hajaratu. E di migliaia di cristiani nigeriani
Hajaratu con i figli superstiti all'attacco dei Fulani al villaggio

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

La strada polverosa che conduce a Chibob è color terra di Siena bruciata, cosparsa di buche riempide d’acqua dalle piogge recenti. I sentieri percorrono il villaggio, consumati da anni di viaggi, collegando tra loro i piccoli gruppi di case. I campi di grano riempiono la campagna circostante e gli alberi di cicadee e dogoyaro punteggiano il perimetro prima di lasciare il posto alla foresta profonda, uno spettacolo comune in questa parte della Middle Belt della Nigeria.

Ma nel bel mezzo di questo paesaggio bucolico c’è qualcosa di oscuro. La maggior parte dei tetti delle case è bruciata, restano solo i muri fatti di mattoni di fango, ricoperti di larghe macchie nere di fumo e fuoco. Un attacco ha lasciato il villaggio in rovina. E non solo le case sono andate distrutte. La notte del 10 luglio, quando i miliziani Fulani hanno invaso Chibob, hanno trucidato chiunque incontrassero sulla loro strada, bruciando case e saccheggiando.

Nella Middle Belt nigeriana, i pastori Fulani uccidono e lasciano sfollati i cristiani, occupando i loro campi. Non tutti i Fulani sono estremisti, ma i radicali attaccano soprattutto i cristiani, bruciano le chiese, colpiscono le loro comunità mentre non toccano quelle musulmane, che nella maggior parte dei casi vivono in pace con i loro vicini. Il governo non riesce a fermare la persecuzione dei cristiani nella regione e Chibob è solo un esempio di questo conflitto più ampio.
Hajaratu, giovane vedova di Chibob, è una dei tanti cristiani colpiti nell’attacco del 10 luglio. Quando i miliziani Fulani hanno attaccato il suo villaggio, Hajaratu ha perso molto più che parte della casa e dei suoi averi, inclusi depositi di grano e bestiame. È sopravvissuta all’attacco, ma quella notte ha straziato la sua vita.

L’attacco e la fuga

Il marito di Harajatu, David Matthew, morì a causa di una malattia nel 2019, lasciandola da sola a prendersi cura dei cinque figli. «Le difficoltà che devo affrontare sono tante», racconta la donna. Per Hajaratu, trovare lavoro per pagare le tasse scolastiche, le parcelle dei medici e il cibo è una sfida molto dura. Ma il 10 luglio le cose sono peggiorate. Quella notte, Hajaratu sedeva con i suoi vicini sotto un albero. Dopo aver preparato la cena e addormentato i figli, si stava scaldando accanto al fuoco. «Circa due minuti dopo ho sentito degli spari. Ho svegliato subito i miei figli e li ho avvertiti che il villaggio era sotto attacco. Mi sono caricata la più piccola sulla schiena, l’ho legata con un pezzo di stoffa e sono corsa fuori: gli altri miei figli erano abbastanza grandi da scappare da soli».
La sparatoria si faceva sempre più intensa e i proiettili sibilavano dappertutto. Uno è arrivato dentro casa sua. «Siamo tutti scappati in direzioni diverse, dividendoci», continua Hajaratu. In tanti scappavano verso il fiume e così ha fatto anche lei sperando di trovare aiuto. «Arrivata al fiume, sono caduta e sono rimasta bloccata nel fango. Nella foga ho lasciato là le mie scarpe».

Vista aerea su una casa di Chibob distrutta nell'attacco dei Fulani
Una casa di Chibob ridotta in macerie dai Fulani (foto Open Doors)

La donna gridava per chiedere aiuto, ma tutti erano già fuggiti lontano. Così Hajaratu si è rialzata, mentre la figlia piangeva, e ha raggiunto il fiume. Non sapeva nuotare, ma il fiume non era in piena, allora ha deciso di rischiare e di attraversarlo, sapendo che altrimenti non sarebbe sopravvissuta. Mentre i proiettili esplodevano proprio dietro di lei, si è immersa nella corrente tenendo la schiena e la figlia fuori dall’acqua. Più avanzava, però, più il livello dell’acqua saliva: una volta raggiunto il centro del fiume, Hajaratu non riusciva più a proseguire. «Sono stata sommersa dall’acqua. Sono andata sotto e tornata su diverse volte: ogni volta mia figlia piangeva disperata», ricorda. Era certa che sarebbe affogata insieme alla bambina, invece in qualche modo è riuscita a guadagnare l’altra riva, boccheggiando quasi incapace di respirare. Solo in quel momento si è accorta che la figlia non era più legata alla sua schiena. Il fiume l’aveva portata via.

La ricerca dei figli

«Sono scoppiata a piangere, non potevo fare più niente». Harajatu ha continuato la fuga attraverso la boscaglia, incapace di fermare le lacrime, finché non ha raggiunto la città più vicina, dove una coppia le ha offerto un rifugio per la notte. La mattina dopo, Hajaratu è tornata al villaggio per cercare gli altri quattro figli. Davanti a lei uno spettacolo devastante: le case carbonizzate, i corpi dei vicini uccisi e bruciati. Il bestiame non c’era perché era stato rubato e neanche dei suoi figli trovava traccia. Il fumo saliva ancora dalle abitazioni del villaggio ridotte a carcasse quando lei, insieme ad altri abitanti, ha sentito i rumori di un nuovo attacco. Chibob non era ancora al sicuro.

Hajaratu è scappata con gli altri sopravvissuti rifugiandosi in un campo improvvisato per sfollati. Piangeva e pregava che qualcuno la aiutasse a riunirsi con i suoi figli. Dopo tre giorni, Dio ha risposto alle sue preghiere. «Me li hanno portati al campo e io li ho abbracciati, piangendo», racconta. «Temevo fossero stati uccisi, anche se non avevo ritrovato i corpi». Uno di loro ha chiesto subito dove fosse la sorellina. «Ho risposto che il fiume se l’era portata via e abbiamo pianto insieme».

«Dio sa qual è il momento»

La perdita subita da Hajaratu ha scosso la sua fede. «Ho interrogato Dio: “Come hai potuto permettere che avvenissero tutte queste morti, specialmente nella mia famiglia?”. Non conosco la risposta. Confido solo che Dio conosca qual è il momento migliore perché ciascuno di noi parta».

Prima di questo attacco, «i cristiani vivevano in pace con i Fulani», spiega ancora Hajaratu. «Ci volevamo bene. Quando qualcuno moriva nel loro villaggio, andavamo a porgere le condoglianze e loro facevano lo stesso con noi». Ma l’estremismo islamico ha distrutto quella pace. «Ora preghiamo che ciò che è accaduto a Chibob non avvenga mai più», dice Hajaratu. Purtroppo, la sua stessa esperienza è toccata a migliaia di altri cristiani che abitano nella Middle Belt nigeriana.

Oggi la donna è tornata al suo villaggio insieme ai suoi quattro figli e continua a soffrire per la perdita della sua bambina. Non si lamenta però, e mentre raccoglie chicchi di grano in una grande ciotola di metallo intona un canto a Dio pieno di speranza: «Non ho niente da offrirti, eccetto parole di gratitudine».

© Open Doors InternationalGuarda la World Watch List 2021, la mappa della persecuzione nei confronti dei cristiani nel mondo.

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